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Accaparramento della terra, un fenomeno globale che non accenna a diminuire
Deforestazione, cambiamenti climatici, migrazioni, agricoltura intensiva: questi alcuni effetti del land grabbing, con grave impatto sulle zone più povere. In Italia cresce il consumo di suolo. Il quadro documentato da Focsiv. 14/7/22
È stato presentato il 28 giugno a Roma il 5° Rapporto Focsiv “I padroni della Terra - Rapporto sull’accaparramento della terra 2022: conseguenze sui diritti umani, ambiente e migrazioni”. È un quadro fosco quello descritto nell’ultima ricerca della Federazione degli organismi cristiani di servizio internazionale volontario, che indaga - sia a livello globale che nazionale - il fenomeno del cosiddetto “land grabbing”, ovvero dell’accaparramento della terra da parte di attori pubblici e privati appartenenti ai sistemi geopolitici più potenti per accedere e controllare risorse strategiche.
Il contesto. La guerra della Russia con l’Ucraina (oltre alla crisi climatica) sta generando effetti a catena sui sistemi alimentari ed energetici mondiali e nello specifico sui Paesi più vulnerabili (come ad esempio la Tanzania, la Costa D’Avorio, fino all’Etiopia e al Kenya), che dipendono in misura importante dagli approvvigionamenti di cereali dalle due nazioni in guerra. L’impatto giunge anche in Italia, che importa semi di girasole dall’Ucraina, con conseguenze a cascata su altri Paesi: il ministero dello Sviluppo economico ha infatti emanato una misura temporanea che apre all’utilizzo di olio di palma e altri oli vegetali in sostituzione del girasole, e quindi a una maggiore domanda di terra con il rischio, segnala Focsiv, di degrado di ecosistemi in Paesi come Indonesia e Malesia.
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Una panoramica del fenomeno. Dalla banca dati Land matrix risulta che a marzo 2022 erano 91,7 milioni di ettari le terre accaparrate. Queste appropriazioni massicce si concentrano soprattutto in Perù, il paese di gran lunga più coinvolto con oltre 16 milioni di ettari, seguito da Brasile, Argentina, Indonesia, Papua Nuova Guinea, Ucraina, Sud Sudan, Mozambico, Liberia e Madagascar. Tra i principali Paesi investitori troviamo invece quelli “occidentali” più ricchi a partire dal Canada (con quasi 11 milioni di ettari) alla Gran Bretagna, passando per gli Stati Uniti, la Svizzera e il Giappone. Seguono le nuove grandi economie come la Cina (5,2 milioni) e l’India, assieme a Paesi emergenti come la Malesia (4,2 milioni) o sede di imprese multinazionali come Singapore (3 milioni).
Il complesso di dati raccolti da Land matrix tra il 2000 e il 2021 restituisce una visione del fenomeno complessiva, con le dinamiche e le caratteristiche prevalenti. Dalla rilevazione emerge che:
- su oltre 33 milioni di ettari totali di terre coinvolti solamente 13 milioni sono stati utilizzati;
- oltre la metà degli investimenti fondiari riguardanti la jatropha, una delle colture più coinvolte in casi di land grabbing per biocarburanti, sono stati abbandonati, ma le terre su cui insistono sono già state sottratte alle comunità;
- l’olio di palma incide per il 20% delle superfici sottratte dal land grabbing;
- in media meno dello 0,5% della forza lavoro nazionale è coinvolta dai grandi investimenti fondiari e spesso con impieghi sottopagati e temporanei;
- Il trasferimento tecnologico tra grandi accaparramenti e piccoli agricoltori locali è estremamente raro, e solo nel 15% dei casi riportati esistono forme di coinvolgimento
a contratto dei piccoli agricoltori;
- solo il 15% degli interventi fondiari documentati include promesse di infrastrutture compensative al land grabbing, ma di queste solo la metà si è realmente materializzata;
- solo il 15% degli investimenti fondiari riporta un consenso delle comunità locali
“coinvolte” veramente libero e informato;
- un terzo dei casi di land grabbing avviene in aree aride, anche se nella metà dei
casi la produzione è rivolta a colture strettamente irrigue e nel 10% verso colture con elevati consumi idrici;
- nel solo Sud Est asiatico il 60% degli investimenti fondiari colpisce aree naturali o semi-naturali di foreste tropicali e pluviali, incrementando la deforestazione, la distruzione delle culture indigene e la biodiversità locale;
- il fenomeno non riguarda solo Paesi strettamente a basso reddito pro capite;
- solamente considerando 964 casi di land grabbing documentati in aree tropicali (riguardanti 19 milioni di ettari totali) si è registrata la perdita di oltre il 20% della copertura forestale preesistente;
- solo nel 20% dei casi totali di land grabbing sono note effettivamente le società “investitrici” coinvolte, nel 15% è comunicato chiaramente il ruolo delle società nell’acquisizione, e meno del 10% degli investitori rende pubblici il prezzo dell’acquisto o dell’affitto.
Gli impatti ambientali e sociali. Il crescente sfruttamento del suolo da parte delle grandi imprese e la distruzione di ettari di terra, soprattutto nelle zone povere del globo, causano effetti pericolosi non solo in termini ambientali, ma anche sulle vite umane. Infatti, se da un lato le attività di queste imprese portano a uno sviluppo delle infrastrutture nelle zone rurali, dall’altro incidono negativamente sul tessuto sociale acuendo disparità ed esclusione. La migrazione risulta così sia un motore che una conseguenza della deforestazione. Infatti alla ricerca di migliori opportunità di lavoro e di risorse inutilizzate, i migranti dalle città si insediano in regioni ricche di terra e scarsamente popolate per avviare attività produttive (molto spesso illegali). Inoltre le rimesse dei migranti verso le comunità locali d’origine generano un reddito aggiuntivo, che possono trasformarsi in investimenti nell’intensificazione dell’agricoltura provocando più deforestazione. Allo stesso tempo, la colonizzazione delle aree selvagge apre la strada all’accaparramento e allo sfruttamento da parte delle grandi imprese che, a loro volta, non garantiscono opportunità di lavoro alla popolazione locale e spingono quest’ultima a migrare verso altre aree. Del resto, la trasformazione della foresta in mezzi di produzione alternativi, come l’agricoltura o l’allevamento, può portare alla povertà, soprattutto a causa dell’alta meccanizzazione e alla perdita di proprietà sui terreni. Inoltre, la deforestazione, provocando l’inaridimento delle terre, porta all’aggravamento del cambiamento climatico attraverso inondazioni, aumento della temperatura e distruzione degli habitat. In particolare per le popolazioni indigene, la distruzione dell’habitat significa anche perdita culturale e spirituale con conseguente migrazione.
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La situazione dell’Italia. Sebbene il consumo del suolo non sia assimilabile direttamente al land grabbing, in senso lato i due fenomeni mostrano tratti convergenti, dal momento che entrambi si riferiscono a investimenti su vasta scala che intervengono in aree agricole e naturali ove vivevano contadini e abitanti che le coltivavano da tempo e su cui avevano usi civici. Si tratta di un passaggio da un modo di sviluppo tradizionale fondato sulle comunità locali e sul mantenimento di un uso del suolo sostenibile, al “modello moderno basato sulla mercificazione della terra e su un suo sfruttamento senza limiti che causa la perdita di suolo, fertilità, biodiversità, capacità di accumulo di carbonio, sostituzione delle comunità locali con il consumatore atomizzato e filiere produttive lunghe”. In Italia il consumo di suolo, il degrado del territorio e la perdita delle funzioni degli ecosistemi continuano a un ritmo non sostenibile e, secondo l’ultimo rapporto del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa), nel 2020 quasi due metri quadrati ogni secondo di aree agricole e naturali sono stati sostituiti da nuovi cantieri, edifici, infrastrutture o altre coperture artificiali. La disordinata e, spesso, incontrollata espansione urbana del Paese avvenuta nel corso dell’ultimo secolo e che, in buona parte, prosegue ancora oggi, rileva Focsiv, ha trasformato e continua, quindi, a trasformare radicalmente il paesaggio e la società. Secondo i dati rilevati dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e da Snpa, la copertura artificiale del suolo nazionale è ormai arrivata a estendersi per oltre 21.000 km2, pari al 7,11% del territorio (era il 7,02% nel 2015, il 6,76% nel 2006, figura 1), rispetto a una media dell’Unione europea del 4,2%, mentre il suolo consumato pro capite nel 2020 tocca i 359 metri quadrati per abitante ovvero dieci metri in più pro capite rispetto a solo cinque anni prima.
I suoli persi a causa del consumo di suolo nazionale erano, in molti casi, destinati precedentemente ad attività agricola e avrebbero garantito la fornitura complessiva di 4 milioni e 155 mila quintali di prodotti agricoli tra il 2012 e il 2020. Ma un’altra conseguenza diretta e particolarmente impattante del consumo di suolo è la perdita dei principali servizi ecosistemici: non solo la produzione agricola quindi, ma anche la produzione di legname, lo stoccaggio di carbonio, il controllo dell’erosione, l’impollinazione, la regolazione
del microclima, la rimozione di particolato e ozono, la disponibilità e purificazione dell’acqua e la regolazione del ciclo idrologico, cui aggiungere il degrado della qualità degli habitat.
Va tuttavia ricordato che, con l’invio del Piano nazionale di ripresa e resilienza alla Commissione europea, il governo si è impegnato formalmente ad approvare una “legge nazionale sul consumo di suolo” in conformità agli obiettivi europei, che affermi i principi fondamentali di riuso, rigenerazione urbana e limitazione del consumo dello stesso, sostenendo con misure positive il futuro dell’edilizia e la tutela e la valorizzazione dell’attività agricola.
Le raccomandazioni Focsiv. Il fenomeno dell’accaparramento della terra può essere fermato se si costruisce un sistema cooperativo non estrattivista che riconosce il diritto alla terra delle comunità che la custodiscono con cura. Di seguito le raccomandazioni rivolte da Focsiv alle istituzioni italiane:
- dare forza al Comitato mondiale per la sicurezza alimentare portando sotto la sua egida il follow up del Vertice sui sistemi alimentari, in modo da affrontare le questioni sistemiche della sicurezza alimentare, tra cui soprattutto il diritto alla terra e le riforme agrarie in una prospettiva di genere;
- sostenere presso la COP27 e la COP15 la salvaguardia delle foreste primarie e una gestione adattiva dei boschi, riconoscendo potere alle comunità locali, alle donne e ai popoli indigeni.
- contribuire positivamente al negoziato sul Trattato Onu su imprese e diritti umani, sul nuovo regolamento europeo per la dovuta diligenza e a quello sulla deforestazione, così come all’attuazione piena dei regolamenti già esistenti (Timber e Minerali dei conflitti);
- aumentare le risorse per la cooperazione allo sviluppo in modo da raggiungere l’obiettivo dello 0,7% del Reddito nazionale lordo, investendole con priorità all’agroecologia e a sostenere i difensori dei diritti umani;
- adeguare gli strumenti di Cassa depositi e prestiti ai migliori standard internazionali, con particolare riferimento alla creazione di un meccanismo indipendente di accesso alla giustizia, e a dare preferenza ai finanziamenti per gli investimenti in agroecologia;
- applicare il Piano per la coerenza delle politiche per lo sviluppo sostenibile, affrontando la questione degli effetti esteri delle politiche commerciali, di investimento ed energetiche (tra cui l’applicazione del Fondo italiano per il clima) sul diritto alla terra delle comunità locali.
di Elita Viola