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VITA SULLA TERRA

Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell'ecosistema terrestre, gestire sostenibilmente le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e far retrocedere il degrado del terreno, e fermare la perdita di diversità biologica

Dagli ultimi dati aggiornati al 2021, risulta che sulle otto milioni conosciute, un milione di specie animali e vegetali è a rischio estinzione. L'attività antropica ha velocizzato di mille volte il tasso naturale di estinzione. Continua il declino della biodiversità italiana a causa di problemi irrisolti, come il degrado e il consumo del suolo. 

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FOCUS. Ripartire dalla natura: un’opzione presente per adattarsi al clima futuro

Mitigare la crisi climatica, ma anche prepararsi all’inevitabile. Secondo l’Adaptation gap report occorre agire con urgenza, altrimenti i costi potrebbero arrivare a 500 miliardi all’anno a metà secolo. La situazione in Italia. 26/02/21

- da Futuranetwork.eu- 

2145. Londra è diventata un’immensa palude, invasa da vegetazioni lussureggianti e lagune salmastre. Pochi edifici sono riusciti a resistere all’allagamento e si innalzano al di sopra della giungla come monoliti grigi. I cittadini vivono in questi palazzi, preda di pipistrelli, serpenti, iguane. Le calotte polari si sono fuse, causando l’innalzamento del livello delle acque di tutto il mondo. Il Mediterraneo è un sistema di laghi, mentre la Gran Bretagna si è unita alla Francia e i Caraibi sono un deserto di sale. La popolazione mondiale sta a poco a poco migrando verso i Poli.

Questo è lo scenario descritto da James Ballard, romanziere fantascientifico tra i più influenti della seconda metà del Novecento, nel suo romanzo Il mondo sommerso (1962), versione ampliata di un racconto precedentemente comparso sulla rivista Science Fiction Adventures. La condizione globale sopramenzionata è stata generata da violente tempeste solari, che hanno diminuito l’attrazione gravitazionale della Terra sugli strati esterni della ionosfera, assottigliando le barriere terrestri contro le radiazioni solari e generando un effetto serra disastroso. Questo romanzo può essere letto secondo più chiavi interpretative, prima fra tutte quella più genuinamente catastrofico-apocalittica, che vede l’uomo vittima di forze naturali ritortesi contro di lui. Questa lettura, per ora, ci basta per rintracciare un elemento rilevante: la Londra del Mondo sommerso, sepolta dall’acqua, è una città priva di misure di adattamento.

Ma come si comporterebbero, a oggi, le nostre metropoli (e non solo), di fronte a una minaccia di questo tipo?

Secondo l’Adaptation gap report 2020, pubblicato dal Programma delle Nazioni unite per l'ambiente (Unep), a causa dell'aumento della temperatura e l'intensificazione degli impatti del surriscaldamento globale, le nazioni devono urgentemente applicare misure di adattamento alle nuove temperature. “La dura verità è che il cambiamento climatico è alle porte”, ha detto Inger Andersen, direttore esecutivo dell'Unep. “I suoi impatti si intensificheranno e colpiranno più duramente Paesi e comunità vulnerabili, anche se gli obiettivi dell'Accordo di Parigi verranno raggiunti e il riscaldamento globale sarà mantenuto al di sotto dei due gradi o intorno agli 1,5°C”.

Le misure di adattamento, in breve, mirano a ridurre la vulnerabilità dei Paesi rispetto agli effetti nocivi del cambiamento climatico (come l’innalzamento del livello del mare, gli eventi meteorologici estremi o l’insicurezza alimentare) aumentando la capacità di assorbire gli impatti e “adattando”, per l’appunto, la nostra quotidianità a un clima che cambia (sfruttando anche eventuali benefici associati al surriscaldamento, come stagioni di crescita più lunghe). Queste azioni differiscono da quelle di mitigazione, che si concentrano invece sulle misure necessarie per ridurre i gas serra nell’atmosfera. Il decremento delle emissioni, però, come rileva il rapporto, non sarà sufficiente a garantire la sicurezza contro gli eventi metereologici estremi, motivo per cui le misure di adattamento costituiscono un pilastro fondante delle politiche climatiche future. “L'impatto del mancato investimento sarà molto grave, e i più poveri del mondo pagheranno il prezzo più alto, perché saranno maggiormente esposti alle conseguenze del riscaldamento globale” ha affermato Inger Andersen.

Secondo l’Unep, i costi annuali di adattamento nei Paesi in via di sviluppo sono al momento stimati intorno ai 70 miliardi di dollari, ma la cifra potrebbe raggiungere i 300 miliardi nel 2030 e i 500 miliardi nel 2050. Quasi tre quarti delle nazioni hanno piani di adattamento in atto, si legge nel rapporto, ma i finanziamenti e l'attuazione sono ancora “molto lontani” da un livello soddisfacente (ogni anno vengono infatti forniti solo 30 miliardi di dollari circa in aiuti allo sviluppo, meno della metà dei 70 miliardi necessari).

Emergenza e piani di adattamento insoddisfacenti sono questioni di rilievo anche per l’Italia, dove, fino all’anno scorso, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) calcolava che il 10% del territorio fosse particolarmente vulnerabile alla desertificazione. La Sicilia si attestava come la regione più colpita (42,9% della superficie totale), seguita da Molise, Basilicata (24,4%) e Sardegna (19,1%).

Il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici, oltre ad aver recentemente pubblicato un rapporto sulle conseguenze ambientali, economiche, sociali della crisi climatica in Italia, ha messo a disposizione sul proprio sito 60 mappe che proiettano il clima atteso nel nostro Paese fino al 2100. L’analisi è stata realizzata grazie allo sviluppo di dieci indicatori che anticipano due diversi scenari, i cosiddetti Percorsi rappresentativi di concentrazione (Rcp), espressi in termini di concentrazioni di gas serra piuttosto che di livelli di emissioni:

  • Scenario business-as-usual, o “nessuna mitigazione”, che corrisponde alla crescita delle emissioni ai ritmi attuali. Tale proiezione assume che, entro il 2100, le concentrazioni atmosferiche di CO2 saranno triplicate o quadruplicate (840-1120 ppm) rispetto ai livelli preindustriali (280 ppm);

  • Scenario a “forte mitigazione”, invece, assume la messa in campo di alcune iniziative per controllare le emissioni, e conseguenti scenari di stabilizzazione futuri: entro il 2070 le emissioni di CO2 scenderebbero infatti al di sotto dei livelli attuali e la concentrazione atmosferica nazionale si stabilizzerebbe, entro la fine del secolo, a non più del doppio dei livelli preindustriali.

A queste criticità si aggiunge la mancanza, registrata finora e richiamata da più attori della società civile (tra cui ogni anno l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, nel suo Rapporto annuale) di un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), quello che l’ex ministro Gian Luca Galletti, dal 2014 al 2018 alla guida del ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, presentava come “uno strumento strategico irrinunciabile per un Paese come l’Italia, che vive ogni giorno gli effetti dei mutamenti climatici”. La sua bozza è del 2017, non è mai stata formalizzata in un Piano discusso in sede politica. Nel suo discorso programmatico, però, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha fatto esplicito riferimento alla protezione dei territori: “l riscaldamento del pianeta ha effetti diretti sulle nostre vite e sulla nostra salute, dall’inquinamento alla fragilità idrogeologica, all’innalzamento del livello dei mari che potrebbe rendere ampie zone di alcune città litoranee non più abitabili”.

Circa la metà dei finanziamenti globali per il clima dovrebbe essere dedicata all’adattamento”, ha recentemente dichiarato sul tema António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, “mentre il resto dovrebbe essere destinato agli sforzi per ridurre le emissioni di gas serra”. Tuttavia, come riportato da The Guardiangli investimenti in questo settore scarseggiano: mentre le aziende private sono spesso disposte a fornire finanziamenti per ridurre le emissioni – schemi redditizi di generazione di energia rinnovabile nelle economie in rapido sviluppo – progetti che aiutino le popolazioni ad adattarsi agli impatti del cambiamento climatico (tramite sistemi di allerta precoce o barriere contro le inondazioni) sono difficili da finanziare, perché prive di considerevoli profitti.

“Molti Paesi faranno anche fatica a trovare le risorse per l'adattamento climatico a causa della pandemia di coronavirus” sottolinea l’Unep. “Gli impatti economici del Covid-19 hanno relegato queste misure più in basso nell'agenda politica in tutto il mondo”.

A questo proposito, però Angel Gurría, segretario generale dell’Ocse, a conclusione del Climate adaptation summit (tenutosi il 25-26 gennaio), ha affermato che “la crisi Covid-19 è un duro promemoria delle conseguenze a cui può portare il disinteresse verso le sfide globali. Il cambiamento climatico è forse il più grave problema che dobbiamo affrontare”.

“Il mondo è destinato a vedere i suoi cinque anni più caldi mai registrati” ha proseguito il segretario Ocse. “Gli incendi boschivi del 2019-20 in Australia hanno bruciato fino a 40 milioni di ettari di terra. E la stagione degli uragani del 2017 negli Stati Uniti ha causato danni per oltre 245 miliardi di dollari. La mitigazione delle emissioni di gas a effetto serra deve essere integrata da misure per sviluppare la resilienza in tutti i settori. I pacchetti di ripristino per il Covid-19 devono essere ecologici”.

Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese, durante lo stesso summit, ha ribadito che “due miliardi di euro – un terzo degli aiuti finanziari francesi per il clima - saranno destinati all'adattamento al clima”, mentre Angela Merkel ha promesso un totale di 270 milioni di euro di budget extra per l'adattamento climatico, a sostegno delle comunità vulnerabili. “Stiamo facendo la nostra parte”, ha detto la cancelliera tedesca.

Ma, nel concreto, quali sono le misure di adattamento migliori per il futuro? Da quali soluzioni bisogna partire?

Il rapporto Unep ha sottolineato l'importanza delle cosiddette Nature based solutions (NbS), ovvero le soluzioni basate sulla natura, come opzioni a basso costo in grado di ridurre i rischi climatici, ripristinare e proteggere la biodiversità, portare benefici significativi alle comunità colpite.

Queste includerebbero soluzioni di vario tipo. Le NbS sarebbero infatti utilizzate principalmente per affrontare i rischi costieri, le precipitazioni intense, l'aumento delle temperature e la siccità. Le inondazioni e l'erosione costiera verrebbero ridotte attraverso il ripristino o la protezione delle barriere coralline, le zone umide costiere, le foreste di mangrovie, le dune e la vegetazione delle spiagge. Le inondazioni dei fiumi, le frane e l'erosione verrebbero affrontate principalmente ripristinando o proteggendo pianure alluvionali e torbiere, e migliorando la vegetazione ripariale, ovvero quella fascia di vegetazione che si trova ai margini di un corso d’acqua. Anche la protezione delle foreste, il rimboschimento, le pratiche agroforestali e agroecologiche contribuirebbero alla gestione del deflusso superficiale contro le inondazioni (gli alberi fungono da barriere naturali e allo stesso tempo da serbatoi di carbonio). Le inondazioni urbane verrebbero affrontate ricostruendo spazi verdi e blu all’interno delle città. I rischi legati alla siccità, inoltre, potrebbero essere attenuati attraverso la gestione integrata dei bacini idrografici, nonché tramite operazioni di rimboschimento e pratiche agricole rispettose del clima (come l'agro-silvicoltura e l'agroecologia).

“L'implementazione di NbS per fronteggiare pericoli costieri, precipitazioni intense, siccità e aumento delle temperature è incrementata in tutto il mondo negli ultimi due decenni, ma la riduzione del rischio non è ancora sufficiente” sottolinea il rapporto. “Prima del 2000, le iniziative che utilizzavano attivamente NbS erano scarse. Da allora, i livelli di attuazione sono aumentati notevolmente”. A oggi, vengono infatti prodotti orientativamente 70 nuovi progetti all'anno, la maggior parte dei quali concentrata negli ambienti rurali dei Paesi in via di sviluppo, e rivolta principalmente ad arginare inondazioni ed erosioni costiere, siccità e incendi”.

Il rapporto sottolinea, però, che nel computo totale di investimenti per progetti di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici (Global environment facility, Green climate fund, Adaptation fund e International climate initiative) che ammonta a 94 miliardi di dollari, solo 12 miliardi vengono utilizzati per soluzioni basate sulla natura.

“La protezione e il ripristino degli ecosistemi viventi come foreste, mangrovie e praterie di alghe possono riparare il clima del nostro pianeta, ma vengono trascurati”, hanno avvertito a questo proposito Greta Thunberg, attivista, e George Monbiot, giornalista del The Guardian e fondatore della campagna Natural climate solutions, in un cortometraggio focalizzato sugli effetti della crisi climatica.

"In questo momento, stiamo ignorando le soluzioni climatiche naturali", ha detto Thunberg. “Spendiamo mille volte di più in sussidi globali ai combustibili fossili che in soluzioni basate sulla natura. È semplice: dobbiamo proteggere, ripristinare e finanziare, preservando ad esempio le foreste tropicali che vengono abbattute al ritmo di 30 campi da calcio al minuto”.

“C'è una macchina magica che aspira il carbonio dall'aria, costa pochissimo e si costruisce da sola. Si chiama albero" ha aggiunto Monbiot.

Le soluzioni climatiche naturali, affermano sul tema gli attivisti di Climate policy initiative, potrebbero rimuovere enormi quantità di anidride carbonica dall'atmosfera. “Ma questi metodi ricevono solo il 2% dei finanziamenti spesi per la riduzione delle emissioni”. Il ripristino della natura, oltre a proteggere gli individui dagli eventi meteorologici estremi, potrebbe inoltre frenare l'annientamento della fauna selvatica, che ha portato a una diminuzione delle popolazioni animali del 60% dal 1970.

Shyla Raghav, esponente di Conservation International, ha aggiunto a questo proposito: "Il fatto è che semplicemente non riusciremo a evitare il crollo del clima senza l’aiuto della natura".

Secondo un recente studio pubblicato su Nature, infatti, il ripristino dei paesaggi naturali danneggiati dallo sfruttamento umano può costituire uno dei modi più efficaci ed economici per combattere la crisi climatica, incrementando allo stesso tempo la biodiversità.

Se un terzo delle aree più degradate del pianeta venisse ripristinato, assicurando la protezione di aree attualmente in buone condizioni, “riusciremmo a immagazzinare una quantità di carbonio pari alla metà di tutte le emissioni di gas serra causate dall'uomo dalla rivoluzione industriale”, affermano i ricercatori. “Inoltre, i cambiamenti impedirebbero circa il 70% delle estinzioni previste”.

Gli scienziati di questo studio – provenienti da Brasile, Australia ed Europa – hanno identificato decine di luoghi in tutto il mondo (molti nei Paesi in via di sviluppo) in cui tali interventi sarebbero efficaci. "Siamo rimasti sorpresi dall’importanza di ciò che abbiamo scoperto – l'enorme differenza che può fare il restauro della natura", ha detto Bernardo Strassburg, professore presso la Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro.

Questo ripristino della natura, però, non dovrà avvenire a scapito dell'agricoltura e della produzione alimentare. “Se il restauro non viene pianificato, può comportare numerosi rischi”. La ricerca sottolinea infatti che il rinfoltimento di alberi – la soluzione basata sulla natura che ha ricevuto il maggior sostegno fino a oggi – non è sempre un metodo appropriato per preservare la biodiversità e immagazzinare il carbonio. Le torbiere, le zone umide e le savane (che, se ben curate, possono anch’esse assorbire i gas) forniscono infatti habitat per una serie di specie animali e vegetali abituate a quel tipo di ambiente. “Se pianti alberi in aree in cui le foreste non esistevano in precedenza, mitigherai il cambiamento climatico, ma a scapito della biodiversità” ha affermato di nuovo Strassburg. Se portato avanti correttamente, però, questo processo potrà aumentare la biodiversità e la produzione agricola. Secondo i ricercatori, possiamo infatti produrre cibo sufficiente per il mondo e ripristinare il 55% dei nostri attuali terreni agricoli, con un'intensificazione sostenibile dell'agricoltura.

Anche gli oceani offrono vasti vantaggi legati alla biodiversità e alle opportunità per assorbire l'anidride carbonica. Secondo un rapporto di Greenpeace International, infatti, arrestare la pesca intensiva e l'inquinamento da plastica degli oceani potrebbe aiutare ad affrontare l'emergenza climatica “migliorando lo stato di degrado del più grande pozzo di carbonio del mondo”.

Gli oceani assorbono sia il calore in eccesso generato dalle nostre emissioni di gas serra, sia l'anidride carbonica stessa, contribuendo a ridurre gli impatti del cambiamento climatico. “Ma stiamo rapidamente raggiungendo i limiti della capacità di assorbimento degli oceani, dal momento che il nostro saccheggio della vita marina sta sconvolgendo il ciclo naturale del carbonio” ricorda Greenpeace.

La creazione di santuari oceanici e di un nuovo trattato per la protezione di queste aree – con l'obiettivo di salvaguardare almeno il 30% degli oceani entro il 2030 – potrebbe ripristinare molte aree e combattere il riscaldamento globale. Il fitoplancton e le alghe, ad esempio, trasformano l'anidride carbonica disciolta in carbonio organico, immettendolo nella naturale catena alimentare. “Senza questa pompa biologica le concentrazioni di carbonio nell'atmosfera oggi sarebbero circa il 50% più alte”.

In conclusione, le soluzioni basate sulla natura possono essere dunque delle ottime misure di adattamento, tanto per preservarci dagli effetti del cambiamento climatico quanto per condurci a un rapporto sano con l’ambiente che ci circonda.

Come dicevamo nell’introduzione, Il mondo sommerso di James Ballard può essere analizzato secondo più chiavi di lettura. Al contrario di quanto si possa pensare, infatti, il romanzo non è un classico post-apocalittico. Il protagonista della storia, Robert Kerans – ufficiale medico impegnato a stilare rapporti sull’evoluzione della flora e della fauna che nessuno leggerà mai – invece di essere impaurito dalla fine del vecchio mondo, è piuttosto rapito dalla realtà caotica che lo sta piano piano sommergendo. La chiave per la comprensione di questa lettura si trova quando si capisce che Ballard usa il mondo post-apocalittico per rispecchiare i desideri scaturiti nei personaggi principali da un inconscio collettivo che vorrebbe, sulla base di pulsioni ancestrali e inconsce, il ritorno sulla Terra di un paesaggio onirico e naturale. Una sorta di rivincita della natura selvaggia, un elogio della de-antropizzazione del pianeta desiderato dagli esseri umani stessi. 

Un ritorno a un ambiente sano, dunque, che può arrivare solo tramite una ripartenza.

di Flavio Natale

venerdì 26 febbraio 2021

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