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LOTTA CONTRO IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Adottare misure urgenti per combattere il cambiamento climatico e le sue conseguenze

La concentrazione media globale di CO2 in atmosfera ha raggiunto nel 2022 nuovi livelli record, pari a 415,8 ppm (parti per milione). Dopo il crollo delle emissioni per la pandemia (-8,9%) nel 2020, le emissioni in Italia sono aumentate nel 2021 del 4,8%.

Approfondimenti

La vita in Bangladesh: l’eterno scontro tra l’uomo e i limiti della Terra

di Elena Rusci, Segretariato ASviS

Il Bangladesh è tra le nazioni più vulnerabili al surriscaldamento globale. Secondo Vandana Shiva, attivista indiana che è stata intervistata dall'ASviS, “solo quando l’indignazione delle persone per la distruzione del Pianeta prenderà il sopravvento, lo status di rifugiato verrà esteso a tutti i profughi, anche ambientali”.
Settembre-Ottobre 2017

Gli effetti del cambiamento climatico sono oramai visibili in molti Stati del mondo, in particolare in Bangladesh. Quale enorme pianura alluvionale, questo Paese è attraversato da più di 700 fiumi e con una linea costiera di 750 km è completamente circondato dall’acqua. Nonostante il Bangladesh contribuisca solo a 0,4 tonnellate metriche per abitante di emissioni di carbonio che alimentano il surriscaldamento globale (gli Stati Uniti ne producono 17 e il Regno Unito 7.1), ad oggi questa Nazione non solo è tra le più popolose e povere al mondo, ma è anche tra le più vulnerabili al surriscaldamento globale ed in particolare agli effetti dell’innalzamento del livello del mare, quali la salinizzazione del terreno e delle acque.

Più di 5 milioni di abitanti del Bangladesh vivono in aree altamente vulnerabili ai cicloni e uragani e più della metà della popolazione vive in un raggio di 100 km dalla costa, molta della quale a meno di 12 metri sul livello del mare. A tal proposito, nel Rapporto della Banca Mondiale “Turn Down The Heat: Climate Extremes, Regional Impacts, and the Case for Resilience” pubblicato nel mese di giugno 2013 è emerso come in Bangladesh le inondazioni provocate dai fiumi Ganges, Brahmaputra e Meghna Delta avvengano con cadenza regolare, tanto da essere parte del ciclo annuale sia dell’agricoltura che della vita delle persone: ogni 3/5 anni due terzi della superficie del Bangladesh viene inondata, causando danni alle infrastrutture, all’agricoltura e alle famiglie più povere.  

Negli ultimi anni il Bangladesh sta assistendo ad un cambiamento significativo circa la natura di eventi estremi quali cicloni e alluvioni. Il surriscaldamento del Pianeta ha infatti aumentato la frequenza e la violenza di tali calamità naturali, costringendo milioni di persone a lasciare le campagne del sud per trasferirsi nelle città. Tra le conseguenze più rilevanti non solo figura la distruzione di milioni di abitazioni, ma anche l’erosione degli argini dei fiumi oltre che dei raccolti. Infatti, a causa dell’innalzamento del livello del mare, l’acqua si infiltra sempre più in profondità nelle zone costiere, aumentando la salinità della terra e rendendola incoltivabile. Secondo gli esperti il livello del mare potrebbe salire fino a un metro entro fine secolo e un terzo del Bangladesh si troverà sotto acqua.

Dinnanzi a questi disastri ambientali ogni giorno circa 2.000 persone si spostano dalle campagne per vivere nella capitale del Paese, Dhaka. Le stime dell’Organizzazione Mondiale dell’Immigrazione evidenziano come ad oggi il 70% degli abitanti di Dhaka siano rifugiati climatici ed entro due decenni la popolazione potrebbe raddoppiare a 30 milioni. Nel corso della storia di questa Nazione, vari sono stati gli eventi naturali che hanno alimentato tali spostamenti, come le pesanti piogge monsoniche che nel 2007 hanno colpito oltre 10 milioni di persone in 39 dei 64 distretti del Paese e che hanno costretto 3.000 persone al giorno a stabilirsi nella capitale. Inoltre, solo nel 2012 oltre 1500 famiglie sono emigrate verso le città, anche con la speranza di non dover percorrere lunghe distanze di oltre 5 ore per poter accedere all’ acqua fresca e potabile.

Questi dati dunque fanno emergere come il fattore principale che incoraggia le persone a lasciare le loro case di campagna sia la ricorrenza frequente di calamità naturali, le quali a loro volta minano lo sviluppo agricolo e causano crisi alimentari. Ad oggi nel Paese sono nate molte iniziative con l’intento di promuovere azioni per mitigare gli effetti derivanti dal surriscaldamento globale.

I principali esperti di cambiamento climatico del Bangladesh hanno dato vita a Gobeshona, piattaforma nazionale di scambio e confronto scientifico. Tale organizzazione gioca un ruolo fondamentale, in quanto attraverso le sue attività di divulgazione e sensibilizzazione sta contribuendo a creare non solo una sana conoscenza del clima a livello locale, ma sta altresì ampliando la voce del Bangladesh nei negoziati internazionali. Accanto a questo nuovo scenario di maggior responsabilità e attenzione alle questioni ambientali, si inseriscono le comunità locali quali figure centrali nell’esecuzione di strategie e progetti di mitigazione al clima. Il governo stesso in collaborazione con Ong e organizzazioni internazionali ha lanciato molti progetti partecipativi, anche nella speranza di rallentare l’esodo della popolazione. In alcuni casi, molte persone hanno imparato a selezionare varietà di riso resistenti all’alto livello di salinità del terreno e a selezionare pesticidi e fertilizzanti organici per mantenere costante nel tempo la ricchezza del suolo. In questi progetti le donne giocano un ruolo chiave per mantenere la salute e il benessere della comunità. Sono infatti 50mila le femmine che imparano a coltivare orti domestici, al fine di mantenere un alto livello di sicurezza alimentare nei casi in cui i campi sottostanti vengano allagati dall’acqua. Negli anni, inoltre, sono state costruite dighe, modificate le pratiche agricole e l'irrigazione sui terreni per evitare la siccità.

Anche le Nazioni Unite, e in particolare il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), in collaborazione con il Ministro per l’Ambiente e le Foreste del Bangladesh, stanno lavorando per implementare un progetto innovativo centrato sull’utilizzo della mangrovia per combattere le erosioni del suolo e ridurre le emissioni di CO2. Anche per il Bangladesh dunque la sfida climatica richiede un certo grado di resilienza tanto delle comunità locali quanto del suolo. A tal proposito, come ha ricordato l’attivista e ambientalista indiana Vandana Shiva ai microfoni dell'ASviS: “Il cambiamento climatico è un problema globale e le regolamentazioni governative hanno bisogno di un sostegno internazionale, ma ogni azione e soluzione volta a mitigare il cambiamento climatico nasce dal basso. Quando in India scoppiò il movimento Navdanya per la tutela della biodiversità agricola, i membri del movimento non erano consapevoli che la loro attività potesse essere un’azione anche per il surriscaldamento globale. Per i membri del movimento, tutelare i semi era principalmente un dovere morale. Credo però che accanto al ruolo delle comunità locali, si debba considerare un secondo elemento di resilienza e cioè il suolo, il suolo organico. E’ davvero l’unico per poter lottare contro la siccità e le alluvioni. Ci sono suoli che sono coltivati con l’impiego di prodotti chimici ma che non presentano alcun grado di resilienza". 

I cambiamenti climatici e le conseguenze da esso derivanti rappresentano le più grandi sfide a cui le popolazioni del Bangladesh per l’innalzamento del livello del mare, dell’Africa per la siccità e dell’Asia per le inondazioni, dovranno far fronte negli anni a venire. Ad oggi molti studi confermano che i fenomeni naturali che devastano l’ambiente, devastano altresì milioni di persone le quali a loro volta sono costrette ad emigrare a causa dei cambiamenti climatici. Dall’inizio degli anni Novanta vari autori e organizzazioni hanno tentato di stimare i rifugiati ambientali e un calcolo effettuato nel 1995 ne ha indicato la cifra di 25 milioni. Una stima che dunque ha posto da un lato un problema nuovo e dall’altro ne ha segnato la probabile crescita esponenziale entro il 2020 e il 2050. Come conferma il Rapporto della Banca Mondiale, entro il 2050 ci saranno oltre 250 milioni di ecoprofughi, di cui circa 40 milioni saranno rifugiati climatici del Bangladesh.

Nella storia umana, le persone si sono sempre spostate alla ricerca di un luogo più adatto alla vita e per certi verso questo fenomeno non è del tutto nuovo. A differenza del passato, però, l’aumento delle temperature e i sempre più estremi eventi meteorologici stanno provocando un forte impatto sulla vita dei popoli di tutto il mondo. L’ultimo Rapporto dell’Internal Displacement Monitoring Centre pubblicato nel maggio 2013 afferma che sono state 32,4 milioni nel mondo le persone costrette ad abbandonare la loro casa in conseguenza di disastri naturali. Il 98% di queste persone ha perso le proprie abitazioni in seguito a eventi legati al clima: solo le alluvioni in India hanno distrutto le abitazioni di 6,9 milioni di persone. Inoltre i disastri naturali verificatisi negli anni hanno fatto emergere come essi colpiscano di più e con effetti più gravi quelle zone in cui il tenore di vita è più basso: il 98% di chi ha dovuto lasciare la propria abitazione a causa di disastri naturali è nei Paesi più poveri. In Africa 8,2 milioni di persone sono state costrette a spostarsi per alluvioni, siccità ed altri eventi metereologici estremi.

La comunità scientifica è d’accordo sul nesso esistente tra surriscaldamento globale e migrazioni forzate, ma ciò nonostante chi migra per motivi ambientali rischia di restare privo di protezione giuridica: ad oggi nessuna convenzione dell’Onu riconosce lo status giuridico di rifugiato ambientale. La condizione del profugo ambientale quale “persona costretta a lasciare il proprio habitat abituale, temporaneamente o per sempre, a causa di una significativa crisi ambientale”, attualmente viene collocata al di fuori dal diritto alla protezione internazionale garantita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, in quanto le persone a cui spetta il diritto di asilo sono quelle che fuggono da un fondato timore di persecuzione, da parte di uno Stato, per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un particolare gruppo sociale. Ma molti studiosi ritengono che anche i profughi ambientali siano effettivamente vittime di una violenza, quella dei cambiamenti climatici, e per questo hanno diritto ad una protezione internazionale. Secondo Vandana Shiva il mancato riconoscimento di tale status è anche il risultato di un sistema internazionale nel quale a prevalere è l’irresponsabilità: “La globalizzazione ha strutturalmente introdotto l’irresponsabilità nel sistema. E’ la prima volta che troviamo l’irresponsabilità alla base dell’economia. Trump ha detto che non intende rispettare le barriere, ma in realtà non intende assumersi le responsabilità di questo disastro ambientale. Negli ultimi venti anni abbiamo assistito alla globalizzazione, che io chiamo “the disease of greed”. Sono state riscritte le regole dell’economia in modo tale che coloro che distruggono il pianeta e impoveriscono le persone possano comunque poi essere rivotati. E’ la stessa globalizzazione che si fonda sul principio “gli inquinatori pagano meno” anziché “gli inquinatori dovrebbero pagare” e la questione dei rifugiati ambientali è emblematica di tale principio.

A novembre 2017 si svolgerà nella città di Bonn la 23esima conferenza sul clima. La presidenza sarà tenuta dalle Isole Fiji e questa scelta ha un alto valore simbolico, se si considera che oggi sono gli stessi stati insulari ad essere a rischio estremo a causa dell'innalzamento del livello dei mari. Chiedere dunque una decisione Cop sui profughi climatici è possibile e auspicabile, anche se come ha ricordato Vandana ShivaLa schiavitù non cessò di esistere solo perché i governi riconobbero che era sbagliato. Al contrario, fu solo quando i gruppi sociali si sentirono indignati e capirono che la schiavitù era immorale, che essa venne abolita. Io oggi vedo che le persone si sentono indignate per la distruzione del pianeta, ognuno di noi lo riconosce. Ed è tale indignazione che porterà ad un cambiamento, che mobiliterà le persone. Saranno le proteste nate dal basso che verranno ascoltate alla Cop, implementate a livello nazionale per poi divenire un diritto umano riconosciuto. Questo non è necessariamente un processo lento, può essere molto rapido, come lo è stato il movimento degli abolizionisti contro la schiavitù.”

Aderenti

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