Approfondimenti
Cosa resta della COP 21, tra buona volontà e vecchi cerimoniali
Sono ripresi a fine maggio i Climate Talks a Bonn, i primi incontri negoziali dopo Parigi e l’Accordo sottoscritto da 177 paesi. Praticamente tutti i negoziatori di Bonn però hanno dichiarato di temere di non essere all’altezza di affrontare le infinite questioni aperte.
Giugno 2016
Riprendono in fine di questo maggio i Climate Talks a Bonn, i primi incontri negoziali dopo Parigi e dopo la firma dell’Accordo che ha visto a New York ben 177 paesi sottoscriverlo. I negoziatori di Bonn, quelli di sempre, si sono ritrovati in un clima nuovo, spinto dall’eccezionale carico di ottimismo e di volontà di fare della COP 21, ma con cerimoniali vecchi e vecchie strumentazioni. Praticamente tutti hanno dichiarato di temere di non essere all’altezza di affrontare le infinite questioni aperte dall’Accordo di Parigi nei tempi necessari che è davvero poco, fatti i conti dopo lo spostamento dell’obiettivo del riscaldamento globale medio a fine secolo ben al di sotto dei 2°C e verso gli 1,5 °C. Intanto da tutte le fonti arrivano notizie che gli ultimi mesi sono stati i più caldi della storia e che probabilmente il 2016 sarà l’anno più caldo nei record statistici. Siamo ormai vicini al riscaldamento medio di un grado rispetto al periodo preindustriale. La concentrazione dei gas serra in atmosfera, quella che regola lo scambio termico tra terra e sole ai limiti dell’atmosfera stessa, è oltre le 450 parti per milione, considerato il limite per non superare i 2°C di riscaldamento a fine secolo. Il Carbon budget, cioè la quantità di gas serra che possiamo ancora immettere in atmosfera per rispettare l’obiettivo di Parigi, è variamente stimato tra le 500 e le 1000 GtCO2eq, che, agli attuali ritmi di emissione, poco meno di 50 Gt all’anno in equivalente CO2, se ne andrà in dieci anni o poco più.
Al di là dei target fissati a Parigi, peraltro consensualmente, si entra nello spazio e nel tempo delle trasformazioni irreversibili, esito ben noto a chi studia i sistemi non lineari e complessi di cui il clima è certamente il maggiore, ma non ancora entrati nel lessico comune dei fenomeni da temere. La realtà è che nemmeno la big science mobilitata intorno al clima è in grado di prevederli con una precisione operativa sufficiente. Parliamo di scomparsa delle calotte di ghiaccio, della modificazione delle correnti oceaniche, dello spostamento al Nord delle specie viventi cacciate in alto dalle zone equatoriali roventi e siccitose con l’effetto di profonde modifiche della biodiversità e, come è sotto gli occhi di tutti, di ondate migratorie imprevedibili sotto la spinta della miseria e della mancanza di risorse alimentari.
Non pensi il lettore che si tratti delle solite giaculatorie ecologiste, al contrario si tratta di conoscenze consolidate e condivise. Il problema è per tutti il che fare, quanto costa e in quanto tempo. Parigi, piuttosto che reiterare Protocolli destinati a restare lettera morta, ha restituito nelle mani dei Governi, delle comunità, delle imprese e dei territori la responsabilità di provvedere all’immane compito della mitigazione e di prendere tutte le misure di adattamento che possono entro certi limiti contenere i danni. Ha anche impostato una per ora modesta modalità di finanziamento a carico dei paesi più ricchi, cui spetta anche l’onere massimo di produrre le tecnologie necessarie e trasferirle a quelli che non le hanno, assieme a quanto serve per la capacitazione di quelle popolazioni. Le risposte sono positive da tutte le parti e ciò fa ben sperare. Resta pero il fatto che la somma degli impegni assunti dalla comunità mondiale, i cosiddetti INDC (Intended Naturally Determined Contributions), raccolti dalla Convenzione a monte della COP 21, porterebbero l’anomalia termica a fine secolo oltre i 3°C, quindi non sono sufficienti e vanno in fretta resi di gran lunga più ambiziosi.
Da questa breve disamina emerge che gli accadimenti avverranno largamente al di fuori dell’iniziativa della Convenzione, che si riserva però di monitorarli e contabilizzarli con metodi rigorosi e condivisi. Qual è in sintesi l’Agenda della Convenzione dopo Parigi? L’Accordo istituisce due cicli quinquennali. Nel primo tutti i Paesi sono invitati a presentare i loro NDC, con l’impegno che ogni contributo successivo dovrà rappresentare un avanzamento del contributo precedente (il meccanismo cosiddetto di ratcheting) il cui punto zero è il citato INDC, se è stato presentato. Sarà rispettato il principio della responsabilità comune ma differenziata secondo le rispettive capacità alla luce delle diverse situazioni nazionali. I Paesi che avevano presentato un INDC a 10 anni dovranno comunicare o aggiornare questi contributi.
Il secondo ciclo conduce al resoconto globale (stocktake) degli sforzi collettivi, a partire dal 2023, preceduto da un dialogo per la facilitazione che avverrà nel 2018. Tutti i Paesi dovranno produrre un Rapporto usando un quadro comune per la contabilità e la trasparenza e tutti sono invitati, nei limiti delle proprie possibilità, o degli obblighi per i paesi ricchi, a dare sostegno ai paesi in via di sviluppo affinché riescano tecnicamente a rispettare gli standard di comunicazione.
L’IPPC, il panel di esperti esterni che supporta la Convenzione, Premio Nobel per la pace 2007, è stato impegnato a disegnare al più presto lo scenario di abbattimento dell’anomalia termica a fine secolo a 1,5°C, valutazione che non è contenuta nel quinto ed ultimo Assessment Report del 2014 il cui scenario di mitigazione più impegnativo era il c.d. RCP2.6 a +2°C. Nell’Italy Climate Report 2016 (1) presentato lo scorso aprile, la Fondazione per lo sviluppo sostenibile ha analizzato alcuni dei principali trend mondiali dell’economia green e low carbon e ha elaborato delle proposte di “roadmap climatiche” post-Parigi, con l’intento di valutare le implicazioni del nuovo accordo globale sul clima per l’Italia.
Alcuni output della ricerca sono di carattere generale. In primo luogo si evidenzia l’arresto della crescita delle emissioni di gas serra nel biennio 2014-2015: si tratta della prima volta nella storia recente che ciò avviene in una fase di crescita dell’economia globale. E non sembra essere una casualità. Lo stesso Accordo di Parigi sarebbe stato forse impossibile da raggiungere anche solo uno o due anni prima. Dietro a questo “quasi decoupling” si nasconderebbero cause profonde e di lungo periodo, a cominciare dal cambio di atteggiamento degli USA e, soprattutto, della Cina che potrebbe essere davvero entrata in quella che Lord Nicholas Stern (2) ha efficacemente indicato come una “nuova normalità dello sviluppo”. Ma sono tanti e diffusi i segnali di una transizione in atto: la crescita delle iniziative di carbon pricing che oramai secondo i dati della World Bank (3) interessano il12% delle emissioni mondiali di gas serra con un mercato da 50 miliardi di $; la diffusione di strumenti e misure in favore di efficienza e tecnologie low carbon, come sistemi di target per le rinnovabili adottati in 164 Paesi nel mondo (4); la perdita di competitività delle fonti fossili, anche in una fase di prezzi artificialmente bassi, con un 2015 nel quale oltre la metà della nuova potenza elettrica installata nel mondo è alimentata da rinnovabili (5). Naturalmente si tratta di segnali incoraggianti, ma non ancora sufficienti. Tanto più se si passa dall’obiettivo concordato alla COP di Cancún, di limitare l’aumento della temperatura globale a 2°C rispetto al periodo preindustriale, a quello ben più ambizioso di Parigi, di stare “ben al di sotto della soglia dei 2°C” facendo ogni sforzo per limitare il riscaldamento terrestre a 1,5°C. Può sembrare una inezia, una questione più di forma che di sostanza, ma in un sistema complesso e non lineare come quello climatico il passaggio da 2 a 1,5°C al 2050 si traduce nella necessità non più quasi di dimezzare le emissioni rispetto al 1990, ma di arrivare alla quasi totale decarbonizzazione dell’economia mondiale, a causa di un carbon budget disponibile per il resto del secolo dimezzato.
Per capire concretamente le conseguenze di un aumento delle ambizioni di tale portata, nella ricerca della Fondazione è stata elaborata una Roadmap energetico-climatica per l’Italia tarata su un target intermedio tra 1,5 e 2°C e alla base della proposta per una nuova Strategia energetica nazionale al 2030 (SEN2030). Naturalmente lo scenario che emerge rappresenta una sfida e gli obiettivi al 2030 attualmente concordati dall’Unione europea dovrebbero essere rivisti in modo sostanziale:
- le emissioni nazionali di gas serra dovrebbero ridursi non più del 36-40% rispetto al 1990, ma almeno del 50%;
- le fonti rinnovabili dovrebbero arrivare a coprire non il 27% ma il 35% del consumo finale lordo;
- le politiche di risparmio ed efficienza energetica dovrebbero portare a un taglio dei consumi rispetto allo scenario tendenziale non del 27% ma almeno del 40%.
Lo studio approfondisce settore per settore le modalità in cui questi obiettivi potrebbero essere conseguiti indicando, ad esempio, un forte impulso all’efficientamento degli edifici esistenti e alla penetrazione dell’energia elettrica nei consumi finali (pur ipotizzando una diffusione di massa dell’auto elettrica solo dopo il 2030). Tuttavia uno dei principali output dell’analisi riguarda il confronto tra ciò che andrebbe fatto, e che potrebbe sembrare ai più un obiettivo irrealizzabile, e ciò che è stato fatto in passato. Per centrare il nuovo obiettivo sulle emissioni di gas serra, in Italia si dovrebbe passare dalle attuali 430 MtCO2eq circa a 260 nel 2030, tagliando in media ogni anno 10-11 MtCO2eq; tra il 2005 e il 2013 le emissioni nazionali sono calate a un ritmo medio di 15 MtCO2eq/anno. Ridurre del 40% i consumi di energia rispetto allo scenario tendenziale vorrà dire tagliare in media ogni anno circa 2 Mtep; sempre tra il 2005 e il 2013 il fabbisogno energetico nazionale si è ridotto di 20 Mtep. Raddoppiare la quota attuale delle rinnovabili sul consumo finale lordo significa fare 1 Mtep di rinnovabili in più ogni anno, meno di quanto abbiamo già fatto tra il 2005 e il 2013 con circa 10 Mtep di rinnovabili in più.
Quella climatica è la principale sfida ambientale, e non solo, della nostra epoca e la precondizione per ogni ipotesi di futuro benessere. Oggi più di ieri abbiamo la consapevolezza di avere gli strumenti e le capacità per poterla affrontare e vincerla. Dobbiamo ora fare appello a tutta la nostra volontà. Consapevoli che il 2030 potrebbe essere molto diverso da come lo avremmo immaginato anche solo pochi anni fa. Molto migliore.
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NOTE
1 - Ronchi E., Barbabella A., Orsini R., Federico T., 2016, La svolta dopo l’accordo di Parigi – Italy Climate report 2016, Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Roma
2 - Stern N. et al., 2016, China’s changing economy: implications for its carbon dioxide emissions, Grantham Res. Inst. Working paper 228
3 - World Bank, 2015, State and trends of carbon princing
4 - IRENA, 2015, Renewable energy target setting
5 - Bloomberg new energy finance, 2016, Global trends in renewable energy investment