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Tuvalu, la battaglia sul linguaggio in materia di clima diventa scontro politico
Aumenta l’attenzione mediatica alla catastrofe climatica, grazie all’iniziativa della Columbia Journalism Review per “evitare di ripetere l’errore commesso ignorando Hitler”. Obiettivo: cambiare l’atteggiamento dei leader politici. 19/8/2019
“Sopire, troncare...”. Come il Conte zio nei “Promessi sposi”, il primo ministro australiano Scott Morrison ha cercato di smussare tutti i riferimenti al cambiamento climatico nel corso del Pacific islands forum che si è svolto a Funafuti, Tuvalu, il 15 agosto. Forte del potere economico di Canberra rispetto ai piccoli Stati dell’Oceania, ha cercato di addolcire tutti i riferimenti all’aumento di temperatura (climate change reality al posto di climate change crisis) e di cancellare ogni riferimento al carbone, che continua a soddisfare una parte rilevante del fabbisogno energetico del suo Paese, senza intenzione di ridurne l’impatto.
Alla fine però il leader conservatore di Canberra ha dovuto capitolare, per evitare di trovarsi totalmente isolato, in posizione contrapposta anche rispetto alla prima ministra della Nuova Zelanda Jacinta Ardern, molto attenta alla minaccia che deriva alle piccole isole del Pacifico dall’innalzamento dei mari. I leader di queste isole hanno imposto un documento, la “Funafuti declaration for urgent climate change action now” nel quale si afferma l’impegno a contenere l’aumento della temperatura a 1,5 gradi, l’immediata eliminazione del carbone e un aumento dei contributi al Green climate fund delle Nazioni unite.
Non sarà facile per Morrison presentare questi impegni alla opinione pubblica australiana, ma la battaglia semantica delle Tuvalu è un indice del cambiamento di percezione sul clima che sta avvenendo a livello globale, grazie anche a un nuovo atteggiamento dei media: la scelta delle parole sta diventando sempre più importante.
La necessità di cambiare linguaggio quando si parla di clima, costringendo anche i politici più riluttanti ad ammettere la gravità della situazione, è diventata materia di dibattito in tutto il mondo, con iniziative che vedranno il loro culmine in occasione del Summit Onu sul clima del 23 settembre. La campagna ha preso forza da una iniziativa del Guardian, come abbiamo già scritto su questo sito: “Il quotidiano liberal sempre attento ai temi della sostenibilità, ha cambiato il suo style book, le regole di scrittura alle quali i giornalisti devono uniformarsi: bandita l’espressione climate change, si deve invece parlare di climate crisis, climate emergency o addirittura di climate breakdown, collasso climatico. Anche global warming non va più bene, bisogna parlare di global heating, perché il Pianeta non sta diventando un po’ più tiepido rispetto al passato, ma rischia di scottare”.
Il 30 aprile, il settimanale The Nation e la Columbia Journalism Review hanno organizzato a New York la conferenza “Covering climate now”, rilevando le gravissime carenze informative in materia di clima, negli Stati Uniti ma non solo. Bill Moyers, l’85enne decano dei giornalisti americani, ha concluso l’incontro ricordando che dell’eccesso di CO2 nell’atmosfera per cause umane già si parlava più di 50 anni fa, quando Moyers era un giovane addetto stampa del presidente Lyndon Johnson, ma che poi non si è fatto nulla per affrontare la situazione. Per descrivere il “vergognoso comportamento” delle principali reti televisive americane in materia di clima ha usato un vecchio acronimo militare, AWOL, che significa absent without official leave, quasi un sinonimo di diserzione.
Moyers ha poi invitato a non ripetere gli errori commessi dagli editor della CBS nel 1939, quando alla vigilia della invasione della Polonia invitavano i loro radiocronisti in Europa ad affrontare argomenti leggeri per allietare il pubblico americano anziché parlare della minaccia di Hitler. Infine il vecchio giornalista, parlando a nome della Shumann media center che dirige, ha impegnato un milione di dollari per il primo anno di una iniziativa mirata a migliorare l’informazione sul clima.
“Vogliamo che i giornalisti si confrontino tra loro e che discutano e analizzino in quale modo i media dovrebbero raccontare la crisi climatica che si sta rapidamente scatenando. Vogliamo mettere in evidenza i buoni articoli (ce ne sono) e trovare il modo per incoraggiarne la produzione. Vogliamo convincere i capi delle newsroom che raccontare la crisi climatica fa parte delle nostre responsabilità e non significa perdere soldi. E neppure richiede un grosso aumento di risorse umane (conosciamo la situazione dei giornali), ma solo un loro uso più intelligente, integrando l’attenzione al clima in tutto quello che facciamo. Vogliamo condividere le modalità di racconto che attraggono telespettatori e lettori e li inducano ad agire. Soprattutto, vogliamo rompere il silenzio sul clima che ancora pervade troppe redazioni”.
Ora i promotori intendono allargare la loro sfera di azione con l’iniziativa internazionale di settembre: una settimana di attenzione alla crisi climatica, in contemporanea con la New York Climate Week, con strumenti di documentazione per i giornalisti e centri di informazione in tutto il mondo. La scommessa è chiara: far aumentare lo spazio dedicato alla crisi climatica nei media, richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sui rischi che stiamo correndo e costringere così anche i politici come Morrison a cambiare davvero atteggiamento.
di Donato Speroni