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Mezzo pianeta da salvare, Italia 20esima per sostenibilità ambientale
Aggiornata la classifica dell’Environmental perfomance index che vede primeggiare i Paesi del nord Europa, con la Danimarca al primo posto. Un altro studio mostra i segni dell’attività umana sul suolo globale. 14/7/20
È tempo di pagelle per la sostenibilità ambientale in giro per il mondo. A distanza di due anni dall’ultima edizione, è stata rilasciata il quattro giugno la versione aggiornata dell’Environmental performance index (Epi), indice in grado di fornire una panoramica globale sui passi in avanti, e quelli indietro, compiuti da 180 Paesi sui diversi temi che minano l’equilibrio ambientale, assegnando loro dei punteggi. Gli indicatori Epi, infatti, rappresentano un modo per individuare i problemi, fissare degli obiettivi e tenere traccia del percorso intrapreso dagli Stati. Il lavoro compiuto dal team di ricerca identifica inoltre le migliori pratiche politiche da mettere in campo per rispettare sia l’Accordo di Parigi sia i Target dell’Agenda 2030.
Secondo i 32 indicatori di prestazione utilizzati (tra cui qualità dell’aria, esposizione a metalli pesanti, buono stato delle acque, tutela del bioma terrestre, trattamento dei rifiuti, CO2 e metano emessi in atmosfera, agricoltura), divisi per 11 categorie (emissioni, biodiversità, servizi ecosistemici, cambiamento climatico e altre), la Danimarca, con un punteggio (l’Epi score) pari a 82,5, è la miglior nazione al mondo nella gestione e nel rispetto di tutte le risorse messe a disposizione dal capitale naturale e nel garantire benessere alla popolazione, obiettivi strettamente collegati alla salubrità del posto in cui si vive (sia esso una campagna o una metropoli). Tendenza positiva che accomuna soprattutto i Paesi del nord Europa, basti pensare che seguono nella classifica Lussemburgo, Svizzera, Regno Unito, Francia, Austria, Finlandia, Svezia, Norvegia e Germania. Prime dieci posizioni che spettano a chi, oltre agli sforzi compiuti, ha già varato una strategia di lungo termine per la tutela della salute dell’ambiente e delle persone, non dimenticando però, che anche per queste nazioni, molto resta da fare.
“Una politica ambientale efficace richiede dati che possano guidare il processo decisionale, ritenere i governi responsabili, identificare i leader e le migliori pratiche e tenere traccia dei progressi verso obiettivi basati sulla scienza. L'Epi 2020 offre un potente strumento per una varietà di parti interessate a raggiungere un futuro sostenibile”, ha dichiarato Zach Wendling, direttore del team di ricerca che ha realizzato il lavoro.
Con un Epi score di 71 l’Italia si posiziona al 20esimo posto della classifica, al pari di Canada e Repubblica Ceca. Il nostro Paese rispetto all’ultima edizione del report perde quattro posizioni (nel 2018 era al 16esimo posto), a causa di un peggioramento di determinati fenomeni che ormai da anni affliggono il territorio italiano. Un esempio è dato dal consumo di suolo (monitorato dal Biodiversity habitat index), che continua a crescere a un tasso maggiore rispetto agli altri Paesi europei (ricordiamo che la legge sul consumo di suolo è ferma da molto tempo in Parlamento), dove addirittura l’Italia si trova in fondo alla classifica al 166esimo posto. Stesso discorso per la tutela degli ecosistemi marini, posizione 108, e per la CO2 emessa (è stato calcolato il tasso di crescita nel periodo 2001-2015 in base alla copertura del suolo), in cui l’Italia è 111esima. Un dato positivo arriva invece dalla “protezione del bioma”, indicatore che in pratica tiene in considerazione il numero di aree protette, dove il nostro Paese è al primo posto.
Sempre di sostenibilità ambientale, ma analizzando nello specifico lo stato di salute del suolo sul pianeta, parla un altro recente rapporto dal titolo “Global human influence maps reveal clear opportunities in conserving Earth’s remaining intact terrestrial ecosystems”, pubblicato il 5 giugno su Global change biology. Lo studio parte da una semplice domanda: quanta superficie terrestre può ancora dirsi libera dall’attività antropica? Secondo la mappatura analizzata dagli scienziati, solo una porzione di terreno (priva di ghiaccio), compresa tra il 20% e il 34%, registra segni “molto bassi” di influenza umana. Si tratta di zone che, tra l’altro, vengono definite inabitabili per via delle condizioni impervie, che non permettono all’uomo dunque di prosperare. Se invece si passa a un grado di influenza “basso”, vediamo che la percentuale di utilizzo del pianeta sale tra il 48% e il 56%.
“Sebbene i diversi usi della terra da parte dell’uomo minaccino sempre di più gli habitat naturali rimanenti della Terra, specialmente nelle aree più calde e più ospitali, quasi metà del pianeta rimane ancora in aree prive di un uso intensivo su larga scala", ha affermato lo scienziato ambientale Erle Ellis dell'Università del Maryland, tra gli autori dello studio, che vede questo dato come un piccolo segnale di speranza.
La questione principale che lo studio pone è che spesso le aree meno sfruttate a livello globale coincidono proprio con le zone che si sono via via rivelate più ostiche per l’attività umana, dove in pratica l’estrazione di nuove risorse è risultata meno agevole (e quindi anche meno profittevole da un punto di vista economico).
Sono diverse le attività che hanno contribuito in modo maggiore agli impatti generati sul suolo, tra cui l’urbanizzazione, la silvicoltura e l'agricoltura. Tutte pratiche esercitate proprio su paesaggi ricchi di biodiversità, che hanno offerto “facili opportunità da cogliere” in modo da soddisfare “gli immediati bisogni umani”. Ne sono un limpido esempio le praterie temperate, le foreste di conifere tropicali e le foreste secche tropicali: in meno dell’1% dei casi viene segnalata un'influenza umana “molto bassa”. Stesso discorso per le praterie tropicali, le foreste di mangrovie e le praterie montane, posti unici nel mondo, capaci di produrre una serie di beni e servizi essenziali al benessere umano e all’equilibrio naturale. Al contrario, i deserti presenti nei luoghi più aridi del mondo e le terre desolate e spesso ghiacciate che presentano un clima più rigido, sono stati ignorati dalla pressione esercitata dall’uomo.
Proprio in base a questi risultati, infine, lo studio avanza la sua proposta: dato che circa il 50% della superficie terrestre mostra segni bassi di influenza, si potrebbe pensare ad un’azione coordinata a livello globale per riorientare il fenomeno antropico proprio sui luoghi fino a ora meno colpiti, dando così respiro all’altra metà del pianeta che rischia seriamente di compromettere in modo irreversibile le sue funzioni. Una sorta di “invasione controllata”, come la definisce il team di ricerca, per non superare i tanto temuti “punti di non ritorno”.
di Ivan Manzo