Approfondimenti
La sfida dei Sustainable Development Goals per le Ong
Dagli Obiettivi del Millennio agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile: identificazione di tre cambiamenti di prospettiva.
Novembre 2016
Il 2015 è stato l’anno delle agende globali, con il passaggio dall’agenda 2000 - 2015 dei Millennium Development Goals (MDGs) a quella 2016 – 2030 dei Sustainable Development Goals (SDGs). Come è noto la prima aveva 8 grandi obiettivi strategici, mentre la seconda ne contiene 17. A parte questo, riteniamo che vadano sottolineate almeno tre differenze di fondo tra le due agende, che hanno significative implicazioni sul piano strategico e su quello operativo per tutti gli attori di cooperazione internazionale.
Dall’approccio solidaristico a quello universalistico
L’agenda 2000 - 2015 degli MDGs si era ispirata quasi esclusivamente ad un approccio solidaristico, sulla scia del Rapporto di Willy Brand “Nord Sud” di 20 anni prima. Al centro vi era la responsabilità dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri e l’aiuto pubblico allo sviluppo, soprattutto canalizzato nella forma del budget support, era visto come lo strumento principale per la fuoriuscita dalla povertà. Gli 8 obiettivi del millennio riguardavano quasi esclusivamente i paesi più poveri e a reddito medio basso e le principali pre-condizioni per il loro successo erano considerate la prevedibilità degli aiuti, il rispetto degli impegni assunti dai governi dei paesi donatori e la good governance nei paesi beneficiari.
Questi concetti erano stati teorizzati da uno dei massimi artefici della strategia degli obiettivi del millennio, Jeffrey Sachs. Nel libro The End of Poverty (2005), Sachs aveva sostenuto che tramite l’allineamento degli aiuti e il mantenimento degli impegni assunti dai governi dei paesi OCSE sarebbe stato possibile tradurre in concreto l’utopia di un mondo privo di povertà estrema nel giro di una generazione. Gli SDGs e l’impalcatura concettuale e programmatica della III conferenza sui finanziamenti per lo sviluppo di Addis Abeba del luglio 2015 pongono l’accento sul tema delle responsabilità condivise e propongono un’agenda globale per tutti, non solo per i paesi più poveri.
Se andiamo ad analizzare i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, ci rendiamo conto anche dal punto di vista terminologico di questo cambiamento. Ci soffermiamo solo su due obiettivi, tra loro collegati. Il primo: End poverty in all its forms, everywhere, quindi non solo la povertà estrema e non solo nei paesi poveri ma anche in quelli a reddito medio – alto; e il decimo: Reduce inequalities within and among countries. Nella strategia degli MDGs il focus era soprattutto sulla riduzione delle diseguaglianze tra paesi; in questo caso invece anche, anzi direi soprattutto, sulle diseguaglianze all’interno dei paesi.
Si tratta di un mutamento di prospettiva che si impone dall’analisi di quanto avvenuto negli ultimi 15 anni. Soffermandoci sull’Africa Sub Sahariana, il rapporto 2014 della Commissione Economica per l’Africa sullo stato di avanzamento degli MDGs (UNECA 2014) rileva che nonostante significativi progressi registrati in diversi paesi, sul piano globale il numero di persone che vive al di sotto della soglia di povertà estrema (1,25 $ al giorno) è cresciuto nel continente da 290 milioni nel 1990 a 376 milioni nel 1999 a 414 milioni nel 2010. La percentuale di povertà assoluta del continente rispetto al pianeta si assesta nel 2010 al 34%, contro il 15% nel 1990. Anche un altro dato va evidenziato. Il numero di persone che vive sotto la soglia di povertà tende ad aumentare in paesi che registrano significativi tassi di crescita economica. Naturalmente questo dato è in sé abbastanza fisiologico se si considera la base di partenza da cui si registra la crescita ma è evidente che questa realtà, oltre a porre ovvi interrogativi di tipo etico, rappresenta una minaccia alla sostenibilità e alla stabilità sociale, istituzionale e politica.
E poi c’è un altro aspetto. La povertà e la diseguaglianza crescono anche qui da noi, nelle nostre società.
Dal 2008 a oggi, gli italiani che versano in povertà assoluta sono quasi raddoppiati fino ad arrivare a oltre 6 milioni, rappresentando quasi il 10% dell'intera popolazione. Secondo la Coldiretti sono 4 milioni gli italiani che chiedono un aiuto per mangiare. Per la Cia, la confederazione italiana degli agricoltori, le famiglie che hanno tagliato gli acquisti alimentari sono addirittura il 65% del totale.
E’ da queste premesse che si rafforza la necessità strategica, per il mondo non governativo, di stabilire alleanze e collaborazioni con una vasta gamma di attori che puntano a definire e attuare anche in Italia una strategia di sviluppo sostenibile.
Non più solo l’aiuto pubblico allo sviluppo
Mentre la strategia dei MDGs faceva perno quasi solo sull’aiuto pubblico allo sviluppo, quella degli SDGs chiama in causa anche altri strumenti.
La nuova agenda, partendo dal concetto di responsabilità condivise, non punta più solo o quasi sull’aiuto pubblico allo sviluppo e ad esempio pone molto l’accento sul tema della mobilitazione delle risorse domestiche, anche a partire dalla razionalizzazione dei sistemi fiscali. L’idea, per riassumerla in modo semplice, è questa: perché un ricco mozambicano non dovrebbe concorrere al sostentamento dell’istruzione di base a Maputo almeno in misura analoga ad un pari reddito canadese?
“Ownership” e allineamento rimangono centrali ma non sono più sufficienti
La nuova agenda richiama in maniera molto più forte di prima alla necessità di un sistema di governance multilaterale. Mentre gli MDGs si ispiravano alla logica dell’allineamento e al principio della ownership, vale a dire all’idea che si stabilissero obiettivi e target condivisi lasciando poi ad ogni stato il compito di perseguirli, gli obiettivi di sviluppo sostenibile, o almeno alcuni di essi, non possono prescindere da strategie coordinate in sede multilaterale. Per fare un esempio concreto: nessuno stato, soprattutto se non è la Cina o l’India, può, da solo, significativamente impattare sul contrasto ai cambiamenti climatici, né tanto meno sulla conservazione delle risorse marine e degli oceani.
Un target determinante per il successo degli SDGs è indubbiamente il terzo dell’obiettivo 16: “Promuovere lo stato di diritto a livello nazionale e internazionale e garantire parità di accesso alla giustizia per tutti”. Alla capacità della comunità internazionale di tradurlo dalla carta alla realtà è legata la credibilità stessa dell’agenda, soprattutto agli occhi di chi paga prezzi altissimi alla mancanza di strumenti di affermazione del diritto internazionale. Cosa rappresenta oggi, per la gente di Aleppo, l’agenda globale?
Il già citato Jeffrey Sachs ha recentemente scritto che il grande assente del mondo contemporaneo è il diritto internazionale, a causa della mancanza di meccanismi di monitoraggio e sanzionatori effettivamente condivisi. Siamo d’accordo con lui. Questo terzo cambiamento di prospettiva è quello dagli esiti più incerti, perché la necessità di rafforzare gli strumenti di governance multilaterale si manifesta in un periodo storico nel quale questi appaiono particolarmente deboli, poco incisivi. Non solo le Nazioni Unite, anche un’entità sovranazionale come l’Unione Europea appare oggi assai meno coesa di quanto non lo sia stata nel passato, ad esempio quando, pur tra mille difficoltà, seppe trovare una linea di condotta orientata verso obiettivi condivisi nel caso della drammatica crisi politica e umanitaria successiva alla disgregazione della federazione iugoslava. Rafforzare gli strumenti di coordinamento multilaterali e di affermazione del diritto internazionale è la prima priorità nei prossimi anni. La società civile dovrà al riguardo fare sentire la sua voce in tutte le istanze nazionali ed internazionali.
Il ruolo del settore privato
La Conferenza di Addis Abeba sui finanziamenti per lo sviluppo del luglio 2015 ha ribadito un concetto già affermato in precedenti assisi internazionali e già ricordato: l’aiuto pubblico allo sviluppo rimane uno strumento essenziale nella lotta alla povertà, ma non sufficiente. Almeno altri due strumenti vanno assunti come prioritari: la mobilitazione delle risorse domestiche e il ruolo del settore privato profit.
Il coinvolgimento del settore privato nelle strategie di lotta alla povertà può avvenire e avviene secondo diverse modalità. Schematicamente si possono identificare tre ambiti: (a) la partecipazione di soggetti privati (imprese, fondazioni, istituzioni finanziarie) al finanziamento per lo sviluppo, indipendentemente dal loro core business e sulla base di un approccio “filantropico”. E’ in questo ambito che operano, ad esempio, grandi soggetti privati quali la Gates Foundation e in Italia le fondazioni erogative; (b) l’imprenditoria sociale, che punta ad attuare strategie economicamente sostenibili per l’erogazione di servizi essenziali e che da decenni si sviluppa anche grazie al determinante ruolo di ONG internazionali e locali; (c) l’inclusive business, che qualifica l’operato di imprese che, perseguendo le loro finalità, cioè il profitto e l’apertura di nuovi mercati, impattano concretamente sulla riduzione della povertà in modo sostenibile e vengono percepite dalle comunità e dalle istituzioni locali come agenti di sviluppo.
Il dibattito internazionale si riferisce soprattutto a questo terzo ambito, laddove gli altri due sono da tempo attivi e non necessitano di ulteriori quadri legislativi e regolamentari.
Il concetto di inclusive business è stato codificato in seguito a diverse analisi empiriche sull’operato delle imprese in contesti di povertà e si può riassumere a partire dai seguenti parametri: (1) il processo di distribuzione dei benefici, quali posti di lavoro, contratti e progetti comunitari, è equo e trasparente ed è localmente percepito come tale; (2) il comportamento imprenditoriale è rispettoso e attento ai bisogni locali ed è localmente percepito come tale; (3) l’impresa assume tutte le misure possibili per assicurare livelli elevati di accountability in riferimento all’impatto sociale, economico ed ambientale della sua attività.
La Commissione Europea, nel quadro delle strategie di incentivazione della partecipazione del settore privato alle strategie di sviluppo, identifica il blending (letteralmente “mescolamento” o “armonizzazione”) come modalità innovativa di finanziamento per lo sviluppo, caratterizzata dalla combinazione tra il dono e risorse finanziarie aggiuntive, ad esempio prestiti e capitali di rischio. Gli obiettivi del blending sono generalmente due, tra loro peraltro associati. Da una parte incentivare investimenti privati in settori ed aree poco attraenti o a rischio sotto il profilo imprenditoriale; dall’altra accrescere i finanziamenti complessivi per la lotta alla povertà, facendo dell’aiuto pubblico allo sviluppo un fattore catalizzatore di altre risorse di origine privata e coniugando lotta alla povertà con sviluppo dell’impresa privata nei paesi in cui si interviene, favorendo l’occupazione. Tali obiettivi sono particolarmente enfatizzati nella programmazione 2014-2020. E’ anche in questa direzione che la Commissione Europea intende sviluppare il piano per gli investimenti esteri in Africa e nel Mediterraneo e Medio Oriente nell’ambito dell’Agenda sulle Migrazioni (COM 2016 385).
E’ difficile ipotizzare il perseguimento dell’obiettivo 8 “Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un'occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti” senza il concorso determinante delle imprese e degli investimenti privati. La sfida aperta è che si possano coniugare due logiche e due “filosofie” – quella del profitto e quella della lotta alla povertà – in un medesimo contenitore strategico, tramite nuovi partenariati tra istituzioni, soggetti no profit e imprese. E’ del resto una sfida accolta anche dall’Italia a partire dal varo della legge 125/2014 sulla cooperazione internazionale che identifica l’impresa come uno dei soggetti di cooperazione allo sviluppo.
Sostenibilità ed esclusione sociale
L’aiuto non è sufficiente ma rimane indispensabile e deve essere sempre più selettivo: questo uno dei messaggi forti della nuova agenda e dei documenti che ne hanno preceduto l’adozione da parte delle Nazioni Unite. Un messaggio che facciamo nostro: l’aiuto va indirizzato soprattutto a coloro, persone, comunità, categorie che ne hanno più bisogno, evitando il rischio che le dinamiche di potere dei contesti locali finiscano con l’orientare i sostegni esterni verso gruppi già protetti e garantiti, a discapito di quelli più in difficoltà. I concetti di esclusione sociale, vulnerabilità e resilienza non sono in sé nuovi ma rivestono un’importanza fondamentale nella nuova agenda.
Giustamente l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) sottolinea la necessità di considerare la sostenibilità come asse strategico in più direzioni. L’ambiente, la società e l’economia sono i tre ambiti a partire dai quali si misurerà l’efficacia degli SDGs. Una crescita economica che produce in termini assoluti ricchezza ma amplia il solco della diseguaglianza non è equa e non è sostenibile, laddove finisce inevitabilmente con il minare la stabilità stessa di una società.
E’ per questo che l’esclusione sociale (definita nel rapporto UNDP sullo sviluppo umano del 2014 come “l’assenza di opportunità di inserimento attivo nella società, in ragione della marginalità istituzionale, dell’appartenenza a gruppi vulnerabili, dello stato di disabilità o di altro fattore – culturale, sociale, economico, politico – disabilitante” è oggi il principale ostacolo alla sostenibilità sociale.
In riferimento agli eventi di quest’ultimo periodo, ragionando sul binomio crescita – esclusione sociale, il pensiero va all’Etiopia, paese di prima priorità per la cooperazione allo sviluppo italiana ed europea. Come è noto in questo paese vige dallo scorso 8 ottobre lo stato di emergenza, a causa dei conflitti che lo hanno scosso (con circa 500 morti secondo vari osservatori) negli ultimi mesi. Siamo convinti che per capire quanto sta accadendo in Etiopia occorra guardare alle crescenti diseguaglianze che la attraversano. Secondo le Nazioni Unite nel 2015 circa 8,2 milioni di etiopici sono stati colpiti dalla carestia, in un contesto nazionale che, secondo stime della Banca Mondiale, è “economicamente cresciuto” nel decennio 2004 – 2014 ad una media del 10,9%.
In Etiopia, come in altri paesi, la cooperazione internazionale può fare molto, attivando programmi centrati sul protagonismo delle società civili e sull’inclusione sociale dei gruppi che finora neanche hanno sentito il “profumo” della crescita economica e proponendo un modello di crescita inclusiva e sostenibile.