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SCONFIGGERE LA POVERTA'

Porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo

Nel mondo, su otto miliardi di persone almeno un miliardo vive in povertà, e nel 2022 sono previsti 263milioni di nuovi poveri. Nel 2021 le famiglie italiane povere erano 1.960mila, mentre la povertà minorile assoluta ha colpito 1.382mila bambini.

Approfondimenti

Lo sviluppo sostenibile deve considerare non solo le infrastrutture fisiche, ma anche quelle sociali

di Gianni Bottalico, Segretariato dell'ASviS, coordinatore Gruppo di lavoro 1 dell'ASviS

Le infrastrutture fanno da volano allo sviluppo. Uniscono le comunità e gli stati, ridisegnano la geografia e la società. È arrivato il tempo di invertire il ragionamento: non più “tagliare per risparmiare”, ma “investire per far crescere”.
Gennaio 2019

Le azioni da intraprendere secondo una visione integrata dello sviluppo sostenibile, sull’asse “città, infrastrutture e capitale sociale”, indicate nell’ultimo Rapporto ASviS appaiono indispensabili al fine di sprigionare le grandi potenzialità insite nelle nostre mille città e nei settemila paesi e borghi che compongono la nostra Repubblica. Occorre, dunque, interrogarsi su ciò che tali azioni implicano in termini di scelte strategiche.

I comuni italiani costituiscono di per sé un enorme capitale sociale capace ad un tempo di esprimere la più grande diversità e di costituire reti e conglomerati urbanistici, economici, culturali capaci di reggere il confronto su scala globale. Occorre preservare questa loro ricchezza, duttilità e creatività, incentivando scelte virtuose in grado di accogliere la sfida degli SDGs, ma anche superando ciò che ne frena lo sviluppo.

In quest’ultima direzione non si può non ricordare gli effetti negativi che stanno avendo sul piano economico e sociale quelle scelte improntate a un eccessivo economicismo, le quali hanno finito per depauperare territori e periferie in nome di un risparmio, o di un profitto solo immediato, a scapito di perdite e guasti futuri. Il riferimento è alla chiusura o riduzione di servizi e di presidi come uffici postali, scuole, ambulatori, linee di trasporto pubblico.

Se si vuole cambiare prospettiva, e collocarsi nell’ottica dello sviluppo sostenibile, forse è arrivato il tempo di invertire il ragionamento. Non più “tagliare per risparmiare”, ma “investire per far crescere”. Le infrastrutture fanno da volano allo sviluppo. Uniscono le comunità e gli stati, ridisegnano la geografia e la società. Emblematico a questo proposito è il caso di Genova: dopo il crollo del viadotto si è preso coscienza che da quel ponte passava la vita di una città, di una regione e dell’intera nazione. Vi sono specifiche funzioni di guida, da capitale, che vengono esercitate nelle varie città e che costituiscono occasione di sviluppo per i territori e per l’intero Paese, senza nulla togliere, ma anzi aumentandone il prestigio, alla Capitale amministrativa. Il capoluogo ligure è una di queste capitali: se si ferma Genova l’intero Paese rallenta. Il tema della “capitale reticolare” fotografa una realtà già in parte esistente (e ben funzionante nei Paesi in cui è attuata come la Germania) e appare promettente anche rispetto all’obiettivo della realizzazione degli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile, in un quadro dove le esperienze pilota e le singole specializzazioni vanno a vantaggio di tutta la comunità nazionale.

Quello delle città è altresì il punto di osservazione da cui risalta meglio il fatto che le infrastrutture non sono solo quelle fisiche, bensì anche quelle sociali. Da tale livello ben si comprende come ciò che viene detto a proposito di un piano sistematico di lotta alla povertà, considerato come infrastruttura per lo sviluppo, possa applicarsi alle politiche di welfare nel suo insieme. La coesione sociale costituisce un’inestimabile capitale sociale che le politiche sociali rafforzano ed accrescono. Pertanto, anche le risorse impiegate per il welfare vanno considerate non come spesa bensì come investimento che contribuisce allo sviluppo. Sotto questo profilo il riferimento agli SDGs risulta strategico per i comuni per uscire da una condizione che li trova non di rado rivestire i panni di gestore di ultima istanza di problemi sociali ed economici strutturali che lo stato in qualche modo in questi anni ha scaricato sul livello di governo più vicino ai cittadini, quello municipale, e sui corpi sociali attivi sui territori. Tale forma di abbandono delle città da parte del livello nazionale si è realizzato con la complicità di almeno due grandi fattori. Il primo è quello di una riforma degli Enti Locali rimasta incompiuta. A fronte della solenne affermazione dell’art.114 della Costituzione, che riconosce l’autonomia degli Enti Locali e li ha posti accanto, e non sotto, allo stato, non senza generare problemi di conflitto di attribuzione, non è stata ancora attuata pienamente una riforma organica. E mentre province e città metropolitane  languono in un limbo amministrativo e finanziario, private delle risorse ma non di molte competenze, essenziali per la vita dei cittadini (si pensi allo stato critico in cui sono lasciati molti edifici scolastici pubblici o alla condizione di dissesto in cui versano centinaia di migliaia di km di strade provinciali), i comuni si trovano a dover comunque fronteggiare delle richieste di servizi e di attuazione di diritti che non possono rimanere inevase.

L’altro fattore che condiziona in modo rilevante l’azione dei comuni è l’applicazione rigida del patto di stabilità interno che non consente alle amministrazioni comunali di mettere in cantiere degli interventi utili e necessari, quando non anche urgenti, addirittura nel caso in cui avrebbero le risorse per poterlo fare. La sensazione che i tagli necessari a raggiungere quegli obiettivi di bilancio che il governo ha stabilito, vengano realizzati soprattutto a scapito delle città e dei comuni appare piuttosto diffusa tra gli amministratori locali. Tale sensazione si combina con la constatazione che ad ogni approvazione della legge di bilancio, compresa quella in via di discussione, la coperta delle risorse disponibili risulti troppo stretta a far fronte alle urgenze e alle necessità della sostenibilità del vivere di tutti e dello sviluppo economico e sociale.

Sulla base delle suddette criticità credo si possa affermare che il presupposto per poter rendere le città protagoniste nella conversione delle politiche in direzione dei SDGs risulta essere quello di un cambio del modello finanziario, senza il quale ottime intuizioni e altrettanto validi progetti rischiano di rimanere inattuabili oppure di esser portati avanti in forma depotenziata, senza quell’intensità che può davvero condurre a un cambio di paradigma.

A tal proposito si impone una considerazione da fare riguardo alla necessità di una più articolata discussione intorno all’indicatore del rapporto fra debito pubblico e pil. La consapevolezza dell’importanza politica che viene attribuita a tale indicatore a livello internazionale, non può portare a sottovalutare le ragioni che consigliano di non farne un riferimento assoluto per la valutazione dello stato della nostra economia. È sufficiente prendere in considerazione l’intero spettro in cui si articola il debito per verificare la sostenibilità del debito italiano, anche in confronto a quello degli altri Paesi più avanzati. A cominciare dal riconoscere che il debito pubblico non è solo quello dello stato ma anche quello delle amministrazioni locali; che questo debito pubblico complessivo non è che una componente del debito, insieme al debito privato contratto dalle famiglie e al debito privato contratto dalle aziende. È stato calcolato, su dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, che l’entità del debito considerato come somma di tutte le forme di debito (escluso quello del settore finanziario, del mondo dei derivati), ammonta nel secondo trimestre del 2018 a livello globale a 260.000 miliardi di dollari. Dato da cui si può ricavare che il rapporto debito/pil nel mondo è al 320%, solo per meno di un quarto (il 23%) composto da debito pubblico, quello a cui in ambito comunitario viene attribuita così tanta importanza. Nella classifica mondiale per Paesi per debito complessivo emerge che gli stati hanno debiti che spaziano dal 300% a meno del 500% del loro pil, e che l’Italia occupa solo il nono posto in tale classifica, con un invidiabile 265% del pil, ottenuto grazie ai bassi livelli di indebitamento di famiglie e imprese, che mitigano l’elevato livello di debito pubblico. Dunque, le preoccupazioni intorno al rapporto debito/pil sono della massima importanza e devono essere inserite nel contesto più ampio dell’economia reale. Ma se si intende influenzare l’orientamento delle politiche verso gli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile occorre anche riuscire a immaginare più ampi e concreti margini di manovra in favore di città inclusive e innovative, di infrastrutture adeguate allo sviluppo e che fungano da moltiplicatori del capitale sociale. In tal modo si potrebbero aprire progetti di cui c’è assoluto bisogno, ma che continuano ad essere rimandati per carenza di risorse, nel campo dei lavori di cura delle persone, della manutenzione e messa in sicurezza delle opere e degli edifici pubblici, dell’ambiente rispetto ai rischi sismici e idrogeologici. Tutti comparti nei quali il ruolo del privato necessita di coordinamento e di uno stimolo pubblico, che deve vedere protagonisti i comuni, perché risultano nell’immediato essere in perdita in quanto a profitti, ma alquanto vantaggiosi in un’ottica più ampia di valorizzazione del capitale sociale e di bilancio sociale che rende le metropoli, le città, i borghi italiani più forti, più interconnessi e più capaci di agire localmente secondo una prospettiva globale di assunzione di responsabilità.

Aderenti

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