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PACE, GIUSTIZIA E ISTITUZIONI SOLIDE

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Aumentano gli omicidi di attivisti per i diritti umani, giornalisti o sindacalisti: tra gennaio e ottobre 2018, in 41 Paesi ne sono stati uccisi 397. Peggiora sensibilmente la situazione italiana, dovuta soprattutto a un aumento del sovraffollamento delle carceri (114 detenuti per 100 posti disponibili nel 2017). A livello regionale, la maggior parte delle variazioni negative si registrano nel Nord e nel Centro Italia, mentre nel Sud questa tendenza è invertita.

Notizie

304 persone sono morte nel 2019 per i diritti umani o per l’ambiente

Un rapporto di Front line defenders indica che l’America Latina è l’area che garantisce meno protezione. Otto su dieci avevano già ricevuto minacce prima di essere uccisi. Il 13% delle vittime è donna. 5/2/20

304 attivisti per i diritti umani sono stati uccisi nel 2019 in 31 Paesi del mondo. È quanto rivela il nuovo Rapporto della Ong Front Line Defenders, presentato il 13 gennaio a Dublino. Due terzi degli omicidi sono avvenuti in America Latina e nella maggior parte dei casi sono rimasti impuniti. La Colombia è la nazione che conta più vittime (106). Al secondo posto, tra i Paesi più pericolosi, ci sono le Filippine, con 43 morti, seguite da Honduras, Brasile e Messico. In Honduras le uccisioni di attivisti sono aumentate di quattro volte rispetto all’anno precedente, mentre sono diminuite in Guatemala e in Messico.

Secondo i dati raccolti da Front Line Defenders, nell’85% dei casi gli attivisti avevano già ricevuto minacce prima di essere uccisi, il 13% è costituito da donne e il 40% stava lavorando su tematiche ambientali o legate alle popolazioni indigene. È il caso del giornalista messicano Samir Flores Soberanes, ucciso il 20 febbraio 2019, che da anni si opponeva alla costruzione di una centrale termoelettrica che rischiava di inquinare le falde acquifere dello stato di Morelos, in Messico.

Il 2019 è stato caratterizzato da ondate di proteste pubbliche che hanno toccato numerose aree del mondo: da Hong Kong all’Iraq, dall’India al Cile. Alle rivolte le forze di sicurezza hanno risposto con l’uso, alcune volte letale, delle armi. Proprio in Cile, che ha conosciuto una delle più grandi proteste antigovernative dalla fine della dittatura di Pinochet, rilevante è stato non solo il numero di morti (23) ma anche di feriti: ben 2.300, principalmente a causa della dura repressione operata dalla polizia. In Iraq, invece, le proteste contro la corruzione tra ottobre e novembre del 2019 hanno causato la morte di 300 persone. Oltre agli omicidi, il Rapporto osserva come i militanti per i diritti umani in molte parti del mondo abbiano dovuto subire aggressioni, campagne di diffamazione, accanimento giudiziario, attacchi omofobi. Episodi in cui è sempre più evidente la dimensione di genere. “Quando l’attivista è una donna” – ha dichiarato Meerim Ilyas, vicedirettrice del team di protezione di Front Line Defenders - “sono frequenti le minacce di violenza sessuale. Le donne attiviste sono perseguitate e punite per la loro visibilità pubblica con continui attacchi che riguardano la loro sfera privata, la loro intimità, i loro corpi”.

Eppure, nonostante le condizioni difficili in cui sono costretti ad operare, la perseveranza di attivisti e movimenti ha portato nel 2019 importanti risultati. Nello Stato di Oaxaca, in Messico, dopo anni di battaglie dei movimenti femministi, l’aborto è stato legalizzato. In Giordania il governo ha ritirato il disegno di legge sui crimini informatici, che avrebbe limitato la libertà di espressione e il diritto alla privacy. Nel sud del Madagascar, gli attivisti di una comunità che si opponevano alla costruzione di una miniera sono stati scarcerati e il progetto è stato bloccato.

 

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di Andrea De Tommasi

mercoledì 5 febbraio 2020

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