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Volontariato all'estero: quando le buone intenzioni non sono abbastanza
Il volontariato internazionale coinvolge ogni anno sempre più persone, animate dalla voglia di compiere un atto di solidarietà. Tuttavia, il loro intervento risulta a volte controproducente per i piani di sviluppo, per impreparazione o motivazioni sbagliate.
Gennaio - Febbraio 2018
Il volontariato internazionale è una delle maggiori risorse della cooperazione. Ogni anno, 1,6 milioni di persone partecipano a missioni o progetti di sviluppo in un Paese straniero, mettendo il loro tempo e le loro capacità al servizio di un’organizzazione non governativa. Come volontari, ovviamente, non percepiscono nessuno stipendio e spesso non vengono rimborsate loro neanche le spese sostenute.
Ciò che li spinge a partire comunque è un forte spirito di solidarietà, ma anche la voglia di mettersi in gioco e di vivere un’esperienza che apra i loro orizzonti e li aiuti a vedere il mondo con occhi diversi. La generosità dei volontari contribuisce alla realizzazione di progetti umanitari, di sviluppo e di sostenibilità in tantissimi Paesi del mondo, e la comunità internazionale è loro grata per questo.
Tuttavia, è necessario riconoscere che il volontariato internazionale si è ultimamente trasformato in un’industria che genera quasi due miliardi di dollari l’anno. È anche divenuto oggetto di non poche polemiche, sia per l’impatto negativo che alcuni progetti hanno avuto a livello socio-economico, sia per gli stereotipi che sono stati diffusi ed alimentati, più o meno involontariamente, dai volontari stessi.
Prendere coscienza del fatto che non tutti i modelli di volontariato all’estero sono responsabili e sostenibili è il primo passo verso una nuova cultura per il settore, una cultura che torni a dare protagonismo agli interessi della cooperazione e delle comunità locali.
La commercializzazione del volontariato all’estero
La gestione del volontariato è spesso sottovalutata. Si può essere indotti a pensare che due braccia in più facciano sempre comodo, ma la realtà è più complicata. I migliori programmi di volontariato, quelli che sanno veramente coinvolgere il volontario nei progetti dell’organizzazione, senza produrre un impatto negativo nel contesto socio-culturale locale, sono il frutto di anni di esperienza e richiedono un consistente investimento di tempo e risorse.
Si dice che i buoni volontari non sono mai gratis! In realtà, nessun volontario è gratis per l'organizzazione, soprattutto se questa non solo si impegna nella pianificazione e gestione del programma, ma fornisce anche vitto e alloggio. Non dovrebbe quindi stupire che molte Ong richiedano il pagamento di una quota per la partecipazione al programma di volontariato, con il fine di coprire tutte le spese che è necessario sostenere a livello di risorse e staff.
Negli ultimi anni, però, abbiamo assistito alla diffusione di un nuovo modello di volontariato internazionale, che considera questo tipo di esperienza un servizio da acquistare. Sono addirittura nate agenzie a scopo di lucro che svolgono un ruolo intermediario tra volontari e non-profit. Il volontario diventa così un cliente ed intorno alle sue necessità si pianificano interi progetti. Un esempio? Un ospedale costruito dai volontari in una regione dove non ci sono i professionisti adatti alla sua gestione: una cattedrale nel deserto. Non è forse questo un controsenso ed un uso irresponsabile delle risorse della cooperazione?
La commercializzazione del volontariato arreca un danno enorme all’immagine del settore e mina la fiducia di molti nella professionalità delle Ong che si avvalgono della collaborazione dei volontari. Inoltre, non sembra considerare i rischi potenziali per gli individui vulnerabili coinvolti e l’equilibrio socio-economico delle comunità locali.
Purtroppo, il volontariato è stato anche al centro di gravissimi scandali, come quello portato alla luce dall’Ong Lumos (fondata da J.K. Rowling, la creatrice di Harry Potter). Lumos ha infatti recentemente denunciato che un certo numero di orfanotrofi di Haiti, aperti in seguito al disastroso terremoto, ospitavano bambini che non erano affatto orfani. Gli organizzatori avevano infatti sottratto i minori a famiglie svantaggiate, con l’obiettivo di attirare giovani stranieri disposti a pagare per un’esperienza di volontariato. Questa non è una truffa isolata: notizie simili sono giunte dall’Africa e dall’Asia Minore.
Il complesso del “white saviour” sui social media
L’accesso facilitato e commerciale al mondo del volontariato ha contribuito a coinvolgere individui impreparati e mossi dalle motivazioni sbagliate. Si è così diffusa sui social media l’immagine del volontario che giunge per salvare la comunità da se stessa, che finalmente porta sviluppo dove prima non c’era. Instagram, Snapchat e tutti i social più popolari sono diventati canali per diffondere questo tipo di stereotipi e pregiudizi, che non solo sviliscono i Paesi che accolgono i volontari, ma mettono in cattiva luce anche i volontari stessi.
Il fenomeno è stato portato all’attenzione della comunità internazionale da diverse fondazioni negli ultimi anni, tra cui il Saih, il Fondo di Assistenza Internazionale degli Studenti e degli Accademici Norvegesi. Attraverso il loro evento annuale Radi-Aid Awards, cercano di sensibilizzare il pubblico (ma soprattutto Ong e volontari) sull’importanza di una buona comunicazione nel settore della cooperazione internazionale.
Con la sua ironia, il Saih denuncia come il complesso del “white saviour”, ovvero l’identificazione del volontario con un “salvatore bianco”, sia stato ampiamente diffuso sui social, insieme ad un’immagine degradante delle comunità locali. Questo tipo di comunicazione ha effetti terribilmente negativi e contribuisce ad alimentare gli stereotipi paternalisti e razzisti, che non giovano né al volontariato internazionale né alla cooperazione in generale.
Il volontariato responsabile ed il ruolo di Ayni Cooperazione
Per contrastare la commercializzazione del volontariato all’estero e gli stereotipi ad essa associati sono necessarie informazione ed educazione. È quello che sostiene Ayni Cooperazione, una nuova associazione nata in Italia nel 2017 per promuovere il volontariato internazionale informato e responsabile.
Informato perché, prima di andare all’estero, è necessario capire sia il contesto di lavoro sia il ruolo del volontario al suo interno. Responsabile perché gli interessi del volontario non possono essere anteposti, in nessun caso, a quelli della comunità e dell’organizzazione.
Ayni sostiene che il volontariato internazionale possa e debba continuare ad alimentare progetti di cooperazione nel mondo, ispirando valori positivi quali la solidarietà e la responsabilità sociale. Ma è necessario contrastare la sua commercializzazione e la diffusione di stereotipi paternalisti, con la promozione di modelli responsabili e sostenibili.
Ong e volontari sono chiamati a collaborare per realizzare questo importante cambiamento. Le prime, che dispongono di esperienza e professionalità, hanno la responsabilità maggiore: definire linee guida per il settore, che valorizzino le competenze dei volontari a vantaggio delle comunità locali. Ma anche tutti coloro che si propongono come volontari assumono una parte di questa responsabilità perché con le loro scelte possono contribuire a contrastare o sostenere i modelli di volontariato poco responsabili.
Ayni mette a disposizione tanto dei volontari come delle organizzazioni un portale d’informazione e reclutamento, dove scoprire opportunità di volontariato nel mondo senza bisogno di un’agenzia come intermediario. Inoltre, attraverso il blog e i social, lavora per sensibilizzare la sua comunità di lettori, indirizzandola verso la realizzazione di un volontariato sostenibile.
Capire il mondo del volontariato internazionale, con tutte le sue contraddizioni, è il primo passo per migliorarlo e dare spazio alle bellissime storie di solidarietà e fratellanza che sono la sua vera essenza. Non a caso, Ayni, in quechua, significa proprio solidarietà.