Approfondimenti
“Discerning Experts”: la scienza climatica nella morsa di univocità e negazionismo
Tra processi alle compagnie petrolifere e finanziamenti a think tank negazionisti, la comunità scientifica è nuovamente chiamata a dire la sua. Le controversie sui risultati scientifici tornano in primo piano: sulla base delle previsioni si prenderanno le decisioni che modificheranno il nostro futuro.
14 novembre 2019
“La maniera più dannosa in cui gli esseri umani influenzano il clima è dovuta alla combustione del carbon fossile […] Questo trend causerà effetti drammatici prima del 2050”. Queste dichiarazioni non appartengono al 2019, o all’anno scorso, e nemmeno al 21esimo secolo. Ma sono le parole che James Black, scienziato senior della ExxonMobil, riferì ai dirigenti della compagnia petrolifera in occasione di un incontro avvenuto nel luglio 1977, nel quale lo scienziato riportava l’opinione di buona parte della comunità scientifica sugli effetti dannosi dell’energia fossile.
Questa dichiarazione fa parte del caso, aperto il 22 settembre 2019, che vede sotto processo l’azienda petrolifera ExxonMobil, accusata dalla procura dello Stato di New York di aver manomesso i dati sui rischi del business legato all’effetto serra. A muovere l’accusa sono stati un gruppo di azionisti di Wall Street, ingannati dalle pratiche dell’azienda, che, secondo le testimonianze, avrebbe “volontariamente tenuto nascosto le previsioni sui costi da affrontare per le misure di lotta cambiamento climatico, usando false stime quando venivano considerate le scelte di investimento”.
Ad aggravare la posizione dell’azienda è stato anche Martin Hoffert, altro scienziato consulente della compagnia nel 1982, impegnato pochi giorni fa in un’interrogazione al congresso americano condotta dalla deputata democratica Alexandra Ocasio-Cortez. In questo scambio di battute lo scienziato, posto di fronte a un grafico elaborato nel 1982 dal suo stesso team riguardo i futuri effetti delle azioni delle Big Oil Companies sul surriscaldamento globale (poi verificatisi), ha solo risposto ironicamente: “Eravamo degli ottimi scienziati”.
Questa causa, e le testimonianze scientifiche riportate, ci invitano a riflettere su una questione molto rilevante: il ruolo assunto dalla scienza all’interno dell’odierno dibattito sul clima e, soprattutto, il rapporto tra quest’ultima e l’opinione pubblica.
Sull’argomento molti articoli e (saggi) sono già stati scritti, individuando nella stragrande maggioranza dei casi un problema di comunicazione tra la comunità scientifica, portatrice di una verità e “affidabilità tecnica”, e un pubblico non ricettivo e, talvolta, semplicemente svogliato. Insomma, nulla che non si possa risolvere ancora oggi portando davanti allo schermo un “tecnico” dotato di carisma, buona capacità comunicativa e slides sufficientemente riassuntive.
Sotto la patina dei problemi mediatici tra comunità scientifica e opinione pubblica, dunque, ci deve essere altro. Questo “altro” sono due questioni molto ingombranti e, purtroppo, ancora irrisolte: negazionismo e uniformità dei dati. Se del primo, e dei suoi ultimi finanziatori, parleremo in seguito, il secondo tema è diventato negli ultimi anni di un’importanza capitale, specialmente in un momento in cui il negazionismo climatico (sembra) essere diventato meno totalizzante.
La questione dell’elaborazione dei dati scientifici e, soprattutto, dell’uniformità della risposta è rilevante perché, oggi più che mai, le valutazioni su cui fanno affidamento molti governi per guidare la politica e le azioni ambientali vengono tratte proprio dalle ricerche della comunità scientifica. Di questo tema si occupa il libro Discerning Experts: The Practices of Scientific Assessment for Environmental Policy, raccolta di studi da parte di eminenti personalità del mondo accademico e scientifico anglofono, tra cui spiccano i nomi di Michael Oppenheimer, professore di Geoscienze e Affari Internazionali a Princeton, Naomi Oreskes, professoressa di Storia della scienza a Harvard, e Dale Jamieson, professore di studi ambientali e filosofia alla New York University. Questi studiosi partono da una semplice considerazione: “Sebbene i risultati della ricerca sul clima siano stati coerenti per decenni, gli scienziati hanno faticato a trasmettere la gravità della condizione ai laici al di fuori del campo. Ma il grande pubblico solo di recente sembra essersi risvegliato alla minaccia della crisi climatica. Perché?”
Per rispondere a questa domanda gli studiosi hanno osservato le differenti risposte che gli scienziati hanno dato, nel corso degli anni, quando sono stati sottoposti alle pressioni, a volte sottili, a volte palesi, del dibattito pubblico.
“Scettici e negazionisti, nelle piattaforme mediatiche, hanno spesso accusato gli scienziati di gonfiare le minacce associate alla crisi climatica, mentre da questo studio emergono prove che suggeriscono esattamente il contrario: nel complesso, hanno avuto ragione nelle loro valutazioni, o addirittura hanno valutato al ribasso”. Gli autori identificano infatti nel libro un “modello di sottovalutazione” di alcuni indicatori climatici chiave ad opera degli scienziati stessi: quando nuove osservazioni sul sistema climatico hanno fornito dati più recenti, infatti, i risultati si sono sempre dimostrati “peggiori che in precedenza”. Ma perché la comunità scientifica, dopo estenuanti ricerche e studi, avrebbe dovuto “lavorare al ribasso”?
Uno dei fattori che sembra contribuire a questa tendenza è quella che gli studiosi chiamano “univocità”, ovvero la tendenza degli scienziati climatici a voler/dover parlare con una sola voce. “Molti scienziati temono che se pubblicheranno il loro disaccordo, i funzionari del governo confonderanno le differenze di opinione, e le utilizzeranno come giustificazione per l'inazione”. Infatti, quello che nel linguaggio tecnico è semplicemente “divergenza di opinioni” nel linguaggio pubblico viene spesso percepito come “dubbio”. Inoltre, il rischio che si corre rappresentando opinioni divergenti è quello di dare il fianco alle fazioni che sfruttano diverbi simili per fomentare la tattica da “produzione del dubbio” che, se anni fa si concentrava sul negazionismo tout court, ora si sta spostando verso l’impossibilità di fare luce all’interno di risultati scientifici divergenti.
Dunque, la necessità di trasmettere un messaggio “unico e inequivocabile” non dipende tanto dalla volontà del mondo accademico, quanto dalla preoccupazione che nel pubblico (e molto più spesso negli entourage politici) la ricezione venga distorta e, in casi peggiori, alterata.
Ma finora la discussione, per quanto evidenzi la mutilazione che la comunità scientifica è costretta costantemente ad autoinfliggersi, potrebbe avere anche dei lati “positivi”, ovvero il raggiungimento di una verità condivisa con la maggiore efficienza possibile. Ma perché, come scritto nel libro, questa univocità conduce invece a una forte sottovalutazione del rischio?
Ce lo spiega sempre Dale Jamieson, uno degli autori del saggio: “Prendete in considerazione un caso in cui la maggior parte degli scienziati pensa che la risposta corretta a una domanda sia compresa tra 1 e 10, ma alcuni (una minoranza) pensano che potrebbe arrivare a 100. In questo caso, tutti concorderanno sul fatto che è almeno da 1 a 10, ma non tutti saranno d'accordo sul fatto che potrebbe arrivare fino a 100. Pertanto, l'area di accordo è compresa tra 1 e 10 e questo verrà riportato come visione di consenso”. Questa uniformità nella discussione, già di per sé parziale, non viene riscontrata solo nell’elaborazione dei dati, ma anche “negli aspetti istituzionali della valutazione, inclusi la scelta degli autori del dibattito, la sostanza della discussione e la guida politica che ne enfatizza il consenso, inclinandosi generalmente a favore del conservatorismo scientifico”.
La domanda che ci poniamo è dunque: quali sono le conseguenze di questo tipo di approccio?
Se fosse solo una questione di comunicazione sarebbe tutto risolto. Si raggiungerebbe un accordo comune tacciando di sensazionalismo qualche scienziato allarmista e su di giri. Ma qui incorriamo in un problema ancora più profondo, che fa sì che questa tendenza all’approssimazione rechi profondi danni alla visione collettiva. Le previsioni scientifiche future costituiscono infatti la base delle predizioni delle azioni politiche e sociali, e su questa stessa base si costruiscono e si creano quotidianamente forme di resilienza e adattamento in grado di salvaguardare umanità e pianeta dalle cause più disastrose del cambiamento climatico. E se questa salvaguardia è basata su una valutazione da 1 a 10, mentre il pericolo che ci attende è 100, che succede?
Nonostante lo scarso rigore scientifico della pellicola, il film The Day After Tomorrow diventa un esempio visivamente utile a riguardo. Supponiamo infatti che la discussione tra il vicepresidente Becker, interpretato da Kennet Welsh, e il paleoclimatologo Jack Hall (Dennis Quaid) avvenuta nella prima metà del film, non fosse incentrata sull’eventualità di una nuova glaciazione globale (e sull’incetta di maremoti e tornado che avrebbe colpito la Terra), bensì sull’entità di questo fenomeno, e su quali fossero gli strumenti per correre ai ripari. Quantificate e precisate, queste misurazioni avrebbero salvato tutte le persone sommerse, ghiacciate e spazzate via nel film? Probabilmente no. Ma allo stesso tempo, conoscere l’entità precisa della catastrofe avrebbe fatto la differenza nel conto delle vittime e nella preparazione delle metropoli alla catastrofe? Certamente sì.
Un’ultima importante annotazione può risultare utile a completare il quadro. Questa condizione da “incertezza indotta” non arrecherebbe il danno che in effetti arreca se il mondo intero fosse d’accordo sui rischi legati al cambiamento climatico. Ma, come ben sappiamo, non è così. Infatti, se Trump si adagia su posizioni negazioniste sin dai primi giorni del suo mandato, altri titani economici continuano a finanziare in sordina i deniers del clima. Tra queste aziende spicca forse la più potente al mondo, Google, che secondo un articolo del Guardian profonde regolarmente nelle casse di think tank ultraconservatori e negazionisti ingenti somme di denaro. Tra questi ultimi troviamo il Competitive Enterprise Institution (Cei), finanziato anche da Amazon, tra i promotori del distacco degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi, o l’Heartland Institute, altro think tank responsabile, tra le varie azioni negazioniste, della creazione di un sito che contraddice punto per punto il pensiero climatico dominante. Ma perché aziende così all’avanguardia sulle rinnovabili (“Sostenibili al 100%” come afferma l’ex Ceo di Google Eric Schimdt) dovrebbero finanziare dei gruppi conservatori e reazionari? La ragione è presto detta. I repubblicani, e specialmente quelli più “duri e puri”, sono rimasti l’ultimo (ingombrante) baluardo a difesa della Section 230, ovvero la legge che negli Stati Uniti tratta le compagnie informatiche come semplici “intermediari di contenuti” e non “editori”, sgravandoli dalla responsabilità legale per una corretta pubblicazione delle notizie. Gli stessi repubblicani, inoltre, ostacolano le normative sulla privacy che tutelerebbero l’individuo dalla selvaggia compravendita di dati sensibili e privati, alla base degli introiti economici plurimiliardari di queste aziende informatiche.
In conclusione, gli autori del libro propongono agli scienziati di esprimere le opinioni divergenti apertamente, senza però lasciare dubbi riguardo l’esistenza o meno del cambiamento climatico. Perché la deriva nella quale rischia di ricorrere costantemente questo tema è quella di tornare ad essere un wicked problem, ovvero una questione troppo complicata per essere risolta. Grazie anche ai movimenti popolari come il Fridays for future, invece, un primo step di comprensione sulla possibilità di azione è già avvenuto. È giunta l’ora di fare qualche passo in più.
Nella sezione “approfondimenti” offriamo ai lettori analisi di esperti su argomenti specifici, spunti di riflessione, testimonianze, racconti di nuove iniziative inerenti agli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Gli articoli riflettono le opinioni degli autori e non impegnano l’Alleanza. Per proporre articoli scrivere a redazioneweb@asvis.it. I testi, tra le 4mila e le 10mila battute circa più grafici e tabelle (salvo eccezioni concordate preventivamente), devono essere inediti.