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VITA SOTT'ACQUA

Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile

Oltre tre miliardi di persone nel mondo dipendono dalla biodiversità marina e costiera per il loro sostentamento. Secondo gli ultimi dati 2021, risulta che di questo passo entro il 2050 avremo più plastica che pesci nei nostri mari. A fronte di una media europea del 77,8%, in Italia gli stock ittici sono sovrastruttati al 91,4%. 

Notizie

Gli shock negli habitat marini intaccano le riserve ittiche

La produzione ittica è influenzata da molteplici shock ambientali che alterano la salute degli habitat e limitano la food security di molti Paesi in via di sviluppo. In Europa il 19% degli habitat marini sono zone in ‘pericolo critico’ o ‘vulnerabili’.

La rivista di divulgazione scientifica Global Environmental Change ha recentemente pubblicato uno studio sulle conseguenze degli shock ambientali sull’approvvigionamento e sul commercio del pesce. Gli effetti di un turbamento in questo settore, però, vanno oltre i problemi di mantenimento dell’equilibrio commerciale. La pesca e l’acquacoltura, infatti, danno occupazione a quasi 60 milioni di persone (dati del 2012) sostenendo il 10-12% circa della popolazione mondiale. Una riduzione dello stock ittico, pertanto, oltre a causare la perdita di posti di lavoro, comporterebbe anche l’aumento di un disagio sociale più ampio, come la crescita del numero di persone che soffrono di indigenza o l’espansione di attività criminali come la pirateria e la pesca illegale. Perciò diviene importante monitorare lo stato degli habitat marini e cercare di prevenire queste situazioni.

Il compito, però, non è di facile attuazione. La prosperità della fauna marina, infatti, risente di molteplici shock come, ad esempio, le calamità naturali, le fuoriuscite di petrolio, i cambiamenti delle politiche ittiche, e le epidemie dell’acquacoltura. Inoltre fa da sfondo a questi fattori il cambiamento climatico che causando sempre più frequenti perturbazioni climatiche estreme, rende il sistema ittico potenzialmente più suscettibile agli shock.

Anche secondo il rapporto sulle zone marine a rischio nel territorio europeo, effettuato dalla Commissione europea,  i cambiamenti climatici sono uno dei maggiori fattori di alterazione della salute degli habitat abissali, oltre alle attività antropiche di sfruttamento e inquinamento.

I cambiamenti climatici, infatti, provocando l’aumento della temperatura e delle fluttuazioni dell’acqua, insieme all’inserimento di specie non indigene, sono considerati le cause principali di malessere per una vasta gamma di habitat poiché influenzano la salute di diverse specie chiave.

Lo studio riportato ha individuato che il 19% dei quattro habitat marini selezionati nell’UE28 (zona mediterranea, del Mar Baltico, del Mar Nero e del nord-est atlantico) sono classificabili come zone in ‘pericolo critico’ (ossia con rischio di estinzione di alcune specie autoctone), in ‘pericolo’ e ‘vulnerabili’. Si deve inoltre tener conto che per più della metà del territorio considerato non sono stati pervenuti dati sufficienti a una valutazione, per cui è plausibile una sottostima delle zone a rischio.

Di questa percentuale di zone contaminate, il 32% si trova nella zona mediterranea. La causa è riscontrabile principalmente nell’eutrofizzazione e nell’inquinamento, soprattutto delle aree costiere altamente popolate, dovuto agli scarichi comunali e allo smaltimento di nutrienti nei fiumi. Più del 25% delle tipologie di habitat del Mediterraneo, inoltre, sono risultate essere danneggiate a causa della pesca a strascico.

Anche gli estuari dei fiumi nel mediterraneo si trovano particolarmente sotto pressione a causa degli impatti combinati di urbanizzazione, pesca, inquinamento proveniente dalle attività sulla terraferma e acquacoltura.

La conservazione e l’utilizzo sostenibile delle risorse marine è il 14mo Obiettivo di sviluppo sostenibile a cui tutti i policy maker e gli stakeholder devono riferirsi per una pianificazione del settore ittico. Per raggiungere questo traguardo, come gli esperti di entrambi gli studi suggeriscono, è essenziale un frequente e puntuale monitoraggio delle zone a rischio che possa fornire dati e informazioni utili alle politiche nazionali e internazionali.

di Giulia D'Agata

venerdì 27 gennaio 2017

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