Approfondimenti
Educazione civica a scuola. Che cosa insegnare?
di Claudio Giunta, direttore scientifico della rassegna "La buona battaglia"
A fine ottobre, a Parma, si parlerà di Educazione civica a scuola nell’ambito degli incontri di “La buona battaglia”. Una riflessione sulla legge 92, che nel 2019 ha re-introdotto l’Educazione civica a scuola.
30 luglio 2020
Per cominciare, il contesto. Si è detto e si dirà che la legge 92 del 20 agosto 2019 introduce l’Educazione civica (Ec) in tutte le classi di tutte le scuole. Ma naturalmente l’Ec a scuola c’era già. Trenta e più anni fa, al liceo «Massimo d’Azeglio» di Torino, l’Ec ce la insegnava il professore di storia e filosofia, un uomo colto, destrorso, col pallino del cristianesimo primitivo e delle eresie manichee. Ho detto ce la insegnava ma in realtà sarebbe più giusto dire che avrebbe dovuto insegnarcela, perché per una serie di circostanze (la principale delle quali era l’overdose di lezioni sulle eresie manichee) i libri di Ec non vennero mai aperti, e a distanza di tanti anni sono ancora qui, intonsi, su uno scaffale della mia libreria.
La sfortuna dell’Ec nella sezione “F” del liceo d’Azeglio di quegli anni, come in tante altre sezioni di liceo, si doveva anche al fatto che c’era il voto di storia e c’era il voto di filosofia, ma il voto di Ec non c’era. Il DEcreto del Presidente della Repubblica che aveva introdotto per la prima volta l’Ec a scuola nel 1958 (presidente Zoli, ministro dell’Istruzione Moro) prescriveva che i programmi di storia venissero integrati dal programma di Ec, ma a questa nuova disciplina non dava una cattedra: ci avrebbe pensato l’insegnante di storia. E come non c’era una cattedra così non c’era né un monte-ore dignitoso (due ore al mese) né soprattutto un voto che facesse media, mentre a scuola il voto è il motore di tutto, senza voto non si è niente e nessuno.
Dopo il mio liceo l’Ec a scuola ha subito aggiustamenti, ritocchi. E a leggere di seguito i documenti in merito emanati dal Ministero tra gli anni Novanta e gli anni Zero si tocca con mano quella, come dire, complicazione di tutte le cose che l’italiano di una certa età ha imparato a riconoscere come la nemesi di questa sciagurata comunità di destino. Il Dpr del 1958, con i programmi e tutto, era lungo quattro pagine. Troppo poche. Tra gli anni novanta e gli anni zero i documenti ministeriali si allungano infinitamente, gli articoli generano articoli che si spezzettano in commi e sottocommi, le pagine diventano dieci, venti scritte piccolo, è cioè entrato sottopelle il principio scolastico sEcondo cui ‘Non importa cosa scrivi, ma scrivi tanto, almeno quattro facciate, cinque se ci riesci’, siamo già nella volata che porterà alle 136 pagine della Buona Scuola, alle 464 del Decreto rilancio…
La riforma Gelmini del 2008 prova a mettere ordine e a dare un po’ di sostanza all’Ec, questa materia-fantasma, ribattezzandola «Costituzione e cittadinanza», un’etichetta felicemente meno generica di ‘educazione civica’, che concentra le forze e l’attenzione sulla Carta che ispira e guida la vita civile del nostro Paese. Bene. Ma anche nel 2008 ci si dimentica di dare alla materia una cattedra, di fissare dei programmi men che generici e, soprattutto, di stabilire che le lezioni di Ec si portano dietro un voto, che sull’Ec non solo s’interroga ma si valuta. Così la buona intenzione si perde nelle brume del tempo-scuola sempre più ristretto e degli adempimenti amministrativi sempre più assorbenti: nelle scuole in cui s’insegna diritto se ne incarica l’insegnante di diritto, mentre dove diritto non c’è ci pensa, se vuole, l’insegnante di geografia o geo-storia al biennio, l’insegnante di storia e filosofia o di lettere al triennio, ma un po’ a caso, senza un programma definito e spesso anche senza un libro di testo, negli interstizi lasciati dalle materie ‘con voto’. E infine arriva il 2019, la Lega vuole reintrodurre l’Ec nelle scuole di ogni ordine e grado, presenta una legge, la spunta, maggioranza e opposizione la votano compattamente. Stavolta, bruciati da delusioni pluridecennali, si parte dalla cosa essenziale: alla preparazione in Ec si darà un voto che farà media con gli altri, l’Ec diventa una materia come la chimica, la storia, l’italiano.
O no? In realtà no, perché non c’è un insegnante dedicato a questa materia, l’Ec è un insegnamento trasversale: c’è un coordinatore, designato dal collegio docenti, ma poi di Ec possono e debbono occuparsi anche tutti gli altri colleghi, per un monte-ore complessivo di 33 ore annuali, una la settimana.
Cosa ci sarà in questa scatola, cioè cosa contemplano i programmi dell’Ec 2020? Il discorso sarebbe lungo, ma il fatto più degno di nota è che la Costituzione è sì il primo e principale campo d’applicazione della Ec, ma non l’unico. La legge 92 indica una serie infinita di potenziali obiettivi di apprendimento, ma dedica un intero articolo soltanto a “Costituzione e cittadinanza” e a “Educazione alla cittadinanza digitale”. Le linee-guida uscite qualche giorno fa indicano invece tre “nuclei concettuali che costituiscono i pilastri della Legge”: ai due suddetti si affianca e si somma un terzo nucleo descritto come “Sviluppo sostenibile, educazione ambientale, conoscenza e tutela del patrimonio e del territorio”.
Messo di fronte a una messe tanto abbondante, l’osservatore non sa se gioire o dolersi. Da un lato, considera sacrosanto che nelle scuole italiane si legga la Costituzione e se ne parli. Dall’altro, si domanda chi formerà i docenti a un compito così arduo come quello che si rispecchia nei programmi di Ec, coi tre “nuclei concettuali” della Costituzione, dell’ambiente e dell’istruzione digitale, e tutta una serie di sottonuclei meticolosamente indicati nel testo di legge: “nell’ambito dell’insegnamento trasversale dell’Ec sono altresì promosse l’educazione stradale, l’educazione alla salute e al benessere, l’educazione al volontariato e alla cittadinanza attiva” (articolo 3 comma 2).
Perché?, ci si domanda. “Costituzione e cittadinanza” non bastava? Non ce n’era già a sufficienza per le 33 ore annue a disposizione? Bastava senz’altro, anche per dare spunti di riflessione (e lezione) agli insegnanti di lettere, matematica, fisica, storia dell’arte… Poche cose, anzi neanche tanto poche, fatte bene. Ma questa è un’altra nevrosi scolastica, cioè una nevrosi ministeriale, insomma italiana, scaricata su incolpevoli studenti e docenti: l’idea che a scuola occorra fare tanto, che occorra ‘finire il programma’, e quanto più ci sta dentro meglio è, e lo sa chiunque ha figli in età scolare a cui farebbe tanto bene leggere e scrivere, e poco altro, e ai quali invece viene ammannito un mescolone indigeribile di nozioni e idee sull’universo mondo.
Nel caso dell’Ec, leggendo la legge e le linee-guida, si capisce che l’elenco sesquipedale di temi snocciolati dal legislatore è il prodotto di una mediazione tra le forze politiche che, concordi, hanno votato il provvedimento. Per “Storia della bandiera e dell’inno nazionale” avranno insistito da destra, per la “Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile” avranno insistito da sinistra, per lo studio “degli statuti ad autonomia ordinaria e speciale” si sarà spesa la Lega, mentre a tutti quanti sarà piaciuta l’“educazione alla cittadinanza digitale”, alla quale la legge dedica un intero articolo. Ma è un articolo in cui è tutto vertiginosamente troppo. Il coding richiede tempo e competenze, non è alla nostra portata? Certo, ma allora ci si poteva porre come ragionevolissimo obiettivo un uso meno scellerato dello smartphone e dei social network. Invece l’articolo 5 è il solito torrente in piena articolato in 7 capi, con tutto un fiorire di velleitari “analizzare, valutare criticamente, interagire, individuare i mezzi e le forme, ricercare opportunità di crescita personale e di cittadinanza partEcipativa attraverso adeguate tecnologie digitali”.
Ma il buon uso degli ambienti digitali, la capacità di evitare i rischi per il proprio benessere, la consapevolezza circa i pericoli della comunicazione in rete, tutta questa batteria di competenze non è il frutto, la conseguenza di quella maturità che si acquisisce non attraverso l’educazione digitale – un àmbito nel quale per altro gli studenti saranno sempre più aggiornati e svelti dei docenti – ma attraverso l’educazione più ampiamente intesa, cioè attraverso la convivenza con i propri coetanei e gli insegnanti, il dialogo con loro, il buon esempio, la lettura? Non stiamo gabellando per competenze settoriali, specifiche, trasmissibili quasi per contatto, quelle che sono attitudini che si sedimentano lentamente attraverso l’istruzione?
Mi pare insomma che questo proliferare di discipline e di obiettivi rifletta una più generale e, a mio avviso, immotivata sfiducia nella forza educativa, civilizzatrice se si vuole, che posseggono le discipline scolastiche ben insegnate: il latino, la matematica, la chimica, la storia e via dicendo. Semmai, ciò di cui si avverte il bisogno è una intelligente revisione dei programmi scolastici relativi a queste discipline, o di quelle «indicazioni ministeriali» che hanno preso il posto dei programmi, una revisione che faccia posto anche a quelli che dovrebbero essere i contenuti dell’Ec: la storia dell’Italia e dell’Europa contemporanea, con particolare riguardo alla nascita dell’Italia repubblicana, la Costituzione, i princìpi e l’organizzazione dello Stato e poco, pochissimo altro. Di fatto, l’introduzione dell’Ec obbligatoria a fianco, ovvero in aggiunta alle altre materie curricolari è già una surrettizia revisione dei programmi, perché per fare posto alle 33 ore di Ec bisognerà saltare, non spiegare in classe una parte del programma di storia o di filosofia o di lettere. Il risultato è lo stesso – una rettifica ai programmi, qualcosa che esce e qualcosa che entra – ma in questo modo l’iniziativa è lasciata agli insegnanti: fate anche questo, dice il ministero, vedete voi cosa tagliare, mentre l’iniziativa dovrebbe essere dello Stato, non per limitare l’autonomia delle scuole ma per avere, in una materia tanto delicata (e sì, tanto identitaria), linee-guida coerenti e condivise.
Un'ampia anteprima digitale degli incontri di "La buona battaglia" è disponibile a questo link.
Autore: Claudio Giunta insegna Letteratura italiana all’Università di Trento. Tra i suoi ultimi libri: «E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica» (Il Mulino, 2017), «Come non scrivere. Consigli ed esempi da seguire, trappole e scemenze da evitare quando si scrive in italiano» (Utet, 2018), «Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca». È il direttore scientifico della rassegna «La buona battaglia», giunta alla sua terza edizione.
Nella sezione “approfondimenti” offriamo ai lettori analisi di esperti su argomenti specifici, spunti di riflessione, testimonianze, racconti di nuove iniziative inerenti agli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Gli articoli riflettono le opinioni degli autori e non impegnano l’Alleanza. Per proporre articoli scrivere a redazioneweb@asvis.it. I testi, tra le 4mila e le 10mila battute circa più grafici e tabelle (salvo eccezioni concordate preventivamente), devono essere inediti.