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Il social carbon cost: chi sarà più danneggiato dal cambiamento climatico?

Uno studio americano rivela il costo economico associato all’aumento delle emissioni di CO2 per 200 Paesi nel mondo. A pagare di più saranno le grandi potenze: Usa, India, Cina e Arabia Saudita. 28/9/2018

È chiamato “Social cost of carbon” (Scc) e rappresenta il costo economico di lungo termine dovuto al riscaldamento globale. In pratica misura quanto pesa sulla società l’emissione di una tonnellata di biossido di carbonio, o viceversa quale sia il beneficio derivante dalla sua riduzione.

Generalmente i valori del Scc  presi come riferimento sono quelli calcolati della Environmental protection agency (Epa) statunitense, i quali sono solitamente stimati a livello globale (ad eccezione degli Usa) non lasciando quindi  intravedere la localizzazione dei danni economici. Per la prima volta invece uno studio americano, pubblicato dalla rivista “Climate change”, propone un’analisi mondiale del Scc su scala nazionale prendendo in esame 200 paesi nel mondo.

I risultati dello studio capovolgono il tradizionale scenario politico globale; i Paesi che dovranno fronteggiare i maggiori danni economici non sono quelli più poveri, che tuttavia rimangono i più esposti alle catastrofi naturali, ma proprio le grandi potenze, solitamente più restie ad intraprendere politiche ambientali. Ai primi posti con il Scc più alto ci sono infatti gli Usa, l'India, l'Arabia Saudita e la Cina.

I risultati della ricerca rivelano poi che i calcoli dell’Epa americana erano fortemente sottostimati: se secondo gli ultimi dati il costo delle emissioni globali si aggirava fra i 6 e i 12 dollari per tonnellata di CO2 emessa entro il 2020, i nuovi dati stimano un costo molto maggiore: di circa “180-800 dollari per tonnellata”.

La ricerca, spiega Kate Ricke, autore dello studio, non solo fornisce dati aggiornati sull’impatto economico del riscaldamento globale, ma suggerisce anche una riflessione critica sulla percezione del problema ambientale. Innanzitutto, si sfata il mito, ancora in voga negli Usa, secondo cui i beneficiari della riduzione delle emissioni sarebbero altri Paesi, cioè quelli più esposti ai disastri ambientali, mentre gli interventi di mitigazione porrebbero un freno all’economia interna. L’applicazione del Scc a livello nazionale dimostra invece che anteporre le esigenze di crescita al problema ambientale è una strategia del tutto fallimentare, anche dal punto di vista economico.  

Un altro paradosso che emerge dallo studio è che sono proprio i Paesi con un Scc più basso, come gli Stati europei, a trainare la politica internazionale sul cambiamento climatico, mentre quelli che subiranno le maggiori perdite economiche, come gli Usa, sembrano ancora sottovalutare il problema.

 

di Francesca Cucchiara

venerdì 28 settembre 2018

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