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Progressi blandi sulla rendicontazione di sostenibilità, il monito dell’Onu
Secondo l’UnDesa, gli investitori hanno le risorse finanziarie per spingere le aziende a cambiare modello di business, ma mancano degli strumenti necessari. Tre i punti chiave: obbligatorietà, qualità e comparabilità del reporting. 24/6/20
“Alcuni gestori a livello globale hanno iniziato a rispondere al cambiamento della domanda dei consumatori incorporando i rischi ambientali, sociali e di governance nelle loro decisioni di investimento. C’è stato qualche progresso. Tuttavia, ad oggi, questi cambiamenti non sono stati sufficienti a trasformare il settore privato alla velocità e alle dimensioni richieste”. Il monito dell’UnDesa, il dipartimento delle Nazioni unite per gli affari economici e sociali, è racchiuso in un documento programmatico licenziato a fine maggio, dal titolo “How can investors move from greenwashing to Sdg-enabling?” (“In che modo gli investitori possono passare dal greenwashing al reale supporto al raggiungimento dgli SDGs?”). Il brief fa parte di una serie di documenti prodotti dall’Onu per aiutare i responsabili politici che affrontano scelte difficili durante la pandemia da Covid-19.
Le aziende, avverte l’UnDesa, devono adattare il proprio modello di business per riflettere i crescenti rischi e incertezze, aiutando a costruire un mondo sostenibile. Ciò è necessario anche per preservare le loro prestazioni finanziarie a lungo termine. Gli investitori hanno le risorse per spingere le aziende a cambiare, ma mancano degli strumenti necessari e di dati affidabili su questioni non strettamente finanziarie.
Ad oggi, gli investimenti sostenibili comprendono una vasta gamma di strategie utilizzate dai gestori di portafoglio, con vari gradi di sostenibilità e impatto. E alcuni prodotti e strategie finanziari sono presentati come sostenibili, senza apportare un contributo significativo allo sviluppo sostenibile e al raggiungimento dei 17 Sustainable Development Goals (SDGs).
Ad esempio, alcuni fondi “sostenibili” includono società produttrici di combustibili fossili o di tabacco, sulla base delle loro presunte buone prestazioni Esg (Environmental, social, governance) rispetto alla concorrenza, mentre in realtà il loro impatto sullo sviluppo sostenibile, sul clima e sulla salute, è assai discutibile. In casi simili si parla di greenwashing, espressione coniata nel 1986 dall’ambientalista statunitense Jay Westerveld per stigmatizzare la pratica ingannevole di alcune catene alberghiere che facevano leva sull’impatto ambientale delle proprie azioni, mascherando interessi economici.
Mentre la rendicontazione sulla sostenibilità da parte delle aziende è cresciuta in modo significativo nell'ultimo decennio, prosegue l’UnDesa, rimangono ancora tre sfide chiave. In primo luogo, è giunto il momento di passare dalla rendicontazione di sostenibilità volontaria a quella obbligatoria. Ad oggi le aziende sono generalmente in grado di decidere su quali indicatori riferire: possono scegliere di comunicare solo i risultati positivi, evitando gli impatti negativi. La rendicontazione obbligatoria contribuirebbe a creare condizioni di parità per tutti.
In secondo luogo, la qualità del reporting di sostenibilità può e deve essere migliorata. Uno studio recente ha rilevato che solo il 23% dei rapporti sulla sostenibilità delle multinazionali collega gli SDGs agli indicatori di performance delle imprese (Key performance indicator, Kpi). “Senza numeri, la rendicontazione sulla sostenibilità diventa rapidamente un esercizio di pubbliche relazioni”, osserva l’UnDesa.
In terzo luogo, la rendicontazione deve essere comparabile. Al momento le aziende possono scegliere tra una varietà di quadri di riferimento di sostenibilità, che producono difformità nelle informazioni divulgate. Gli investitori possono facilmente trovarsi a utilizzare decine di Kpi diversi che misurano lo stesso argomento, il che rende difficile confrontare le aziende. Queste incoerenze creano sfide e costi per gli investitori e le altre parti interessate nell'interpretazione e nel confronto dei dati.
I governi e il settore privato hanno un interesse condiviso per portare il mondo su un percorso sostenibile, conclude il documento, ricordando l’impegno di 30 business leader globali (tra cui Francesco Starace, amministratore delegato di Enel) riuniti nella Global investors for sustainable development (Gisd) alliance, per affrontare la sfida del finanziamento degli SDGs.
di Andrea De Tommasi