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FOCUS. Caldo estremo: c’è davvero il rischio di uno scenario di “apartheid climatica”?

Entro il 2100 alcune zone del mondo potrebbero risultare invivibili senza sistemi di refrigerazione, che in pochi si possono permettere. Bulbi umidi e isole di calore i pericoli più seri. L’America sperimenta nuove soluzioni, l’Ue arranca. [Da FUTURAnetwork.eu]  4/7/24

giovedì 4 luglio 2024
Tempo di lettura: min

Le temperature estreme stanno diventando una questione sempre più problematica. Se n’è accorto il mondo intero in occasione del pellegrinaggio hajj alla Mecca, dove, a causa del caldo torrido (superiore ai 50 gradi) sono morti oltre 1.300 musulmani. L’80% delle vittime erano, secondo i funzionari sauditi, “pellegrini non autorizzati”, e non disponevano di mezzi o luoghi di ristoro adeguati. Ciò non toglie che il caldo era fuori della norma.

Secondo uno studio pubblicato sul Journal of travel medicine, le temperature della Mecca sono aumentate costantemente negli ultimi 40 anni, con un incremento medio di 0,4 gradi ogni decennio. Un’altra ricerca pubblicata sul Journal of applied meteorology and climatology ha affermato che l’Arabia Saudita è stata protagonista (dal 1979) di un costante aumento delle temperature, a un tasso superiore del 50% rispetto ad altre regioni dell’emisfero settentrionale. “Se la tendenza attuale persisterà anche in futuro”, hanno commentato i ricercatori, “la sopravvivenza umana nella regione sarà impossibile senza un accesso continuo all’aria condizionata”.

Il resto del mondo non se la passa molto meglio. La parte settentrionale dell’India ha vissuto a giugno un’ondata di caldo senza precedenti: il 19 del mese, a Ganganagar, nel nord-ovest del Paese, si sono toccati i 44,7 gradi, mentre Delhi ha registrato temperature notturne minime di 35,2 gradi (la notte più calda registrata dal 2010), facendo schizzare la domanda di energia a livelli record: 8.647 megawatt in una sola giornata per la capitale, e 90mila megawatt per l’intera India settentrionale. Ha fatto così caldo che a Delhi è stato aperto per la prima volta un pronto soccorso specializzato nei colpi di calore.

Anche il nord-est degli Stati Uniti e il Canada orientale sono stati colpiti da pesanti ondate di caldo, o meglio “cupole di calore”: il termine si riferisce a periodi prolungati di temperature superiori alla media, combinate con una condizione di alta pressione che intrappola l’aria calda.

Francia e Germania hanno vissuto settimane di frequenti temporali, tanto che alcune zone riservate al pubblico per Euro 2024 (che si gioca in terra tedesca) sono state chiuse per motivi di sicurezza. La tempesta Alberto (prima tempesta tropicale della stagione degli uragani) si è abbattuta sul Messico portando forti venti e inondazioni. Mentre in alcune aree del Texas sono caduti fino a 20 centimetri di pioggia. 


Zone invivibili

E la situazione potrebbe peggiorare. Secondo gli esperticirca il 30% delle persone nel mondo è esposto al rischio di vivere in zone soggette a condizioni di “bulbo umido”, percentuale che potrebbe salire al 50% entro il 2100.

Nello specifico, si parla di “bulbo umido” quando il clima è caratterizzato da alti livelli di calore e umidità, combinazione che inibisce la capacità del sudore di raffreddare il corpo e raggiungere la temperatura interna di 37 gradi, indispensabile per sopravvivere. Quando si accostano temperature superiori ai 35 gradi con alti tassi di umidità si rischiano colpi di calore, gravi danni fisici e, in casi estremi, la morte.

Il pericolo che corriamo dipende naturalmente da quanto aumenteranno le temperature. Secondo ScienceAdvances, con un riscaldamento di 1,5 gradi gran parte dell’Asia meridionale, dell’Africa Saheliana, dell’America Latina e dell’Australia settentrionale potrebbero essere soggette ad almeno un giorno all’anno di “caldo letale”. Se il mondo arrivasse a tre gradi, quest’area si estenderebbe, coprendo gran parte dell’Asia meridionale, della Cina orientale e del Sud-Est asiatico, nonché l’Africa centrale e occidentale, l’America Latina, l’Australia e parti significative degli Stati Uniti sudorientali.  

Fonte: ScienceAdvances

Uno studio condotto dagli scienziati del Mit ha identificato nel Golfo Persico un “hotspot regionale” dove il cambiamento climatico potrebbe minacciare gravemente la vita. La ricerca ha rilevato che città come Dubai o Abu Dhabi potrebbero incorrere in periodi di caldo estremo sempre più frequenti entro il 2070.

Discorso simile vale per la Cina settentrionale, che ospita circa 400 milioni di persone: una ricerca pubblicata su Nature communications avverte che nell’area si potrebbero verificare diverse ondate di calore intenso tra il 2070 e il 2100. Shanghai, terza città più popolosa della nazione, potrebbe essere una delle zone più colpite.

Per mappare il rischio di queste (e altre) aree, un gruppo di ricerca dell'Arizona state university (Asu) ha creato un “manichino termico” che, grazie a dispositivi biometeorologici, registra il calore esterno e può “sudare” quando fuori fa caldo. “Andi”, questo il nome del manichino, è stato ideato per misurare gli effetti che le temperature possono avere sul corpo umano in luoghi a rischio. “Non si possono eseguire questi test su persone reali”, ha detto all’Arizona Republic Konrad Rykaczewski, professore di ingegneria meccanica dell'Asu. “Non è etico e sarebbe pericoloso”. Ma quello che oggi è considerato il “picco del caldo", ha aggiunto, “potrebbe essere il giorno medio tra 20 anni”.   

Le soluzioni ci sono (per chi se le può permettere)

Un rapporto delle Nazioni unite pubblicato nel 2019 si chiedeva già al tempo se ci stessimo dirigendo verso uno scenario di “apartheid climatica”, in cui i più ricchi si sarebbero potuti permettere di sfuggire al riscaldamento globale, mentre il resto del mondo no. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), questo scenario è già realtà: quasi 2,8 miliardi di persone vivono attualmente in Paesi in cui la temperatura media giornaliera è superiore a 25 gradi, ma meno del 10% di loro possiede un condizionatore d’aria. Philip Alston, già relatore speciale delle Nazioni unite sulla povertà estrema e i diritti umani e autore del rapporto sull'apartheid climatico, ha detto che “la vita dei più poveri del mondo sarà a rischio”.

Rischio percepito soprattutto nelle aree densamente popolate, dove è sempre più diffuso il fenomeno delle “isole di calore”, zone altamente urbanizzate, dotate di pochi alberi e spianate di cemento e asfalto. Queste “isole”, assorbendo una notevole quantità di sole, restano calde non solo di giorno ma anche di notte, e possono arrivare anche a temperature superiori di 20 gradi rispetto ad aree meno popolate.

In America molte città stanno correndo ai riparicirca l’80% della popolazione statunitense vive infatti in aree urbane che rischiano l’effetto “isole di calore”, e tra le soluzioni più in voga si sta diffondendo la piantumazione di alberi.

Austin, in Texas, si è posta come obiettivo di coprire il 50% della superficie cittadina (compresi i tetti) di alberi entro il 2050. A Phoenix, in Arizona (considerata la città più calda degli Stati uniti), un’importante iniziativa da 1,4 milioni di dollari ha permesso di piantare 1.800 alberi in tutta la città. San Francisco ha imposto dal 2017 che almeno il 15% della superficie dei tetti che superano i 1.900 metri quadrati venga ricoperto di pannelli solari o vegetazione.

Anche dipingere le strutture di bianco può essere un’idea. Uno studio recente ha rilevato che un tetto tinteggiato di chiaro può riflettere fino all’80% della luce solare e rimanere fresco in un pomeriggio estivo. Questa soluzione, applicata da decenni nell’area mediterranea, è stata adottata anche in India: grazie alle attività dell’organizzazione non profit Mahila housing trust, molte donne in condizioni di povertà hanno potuto verniciare i tetti e ridurre la temperatura di due-quattro gradi grazie a una particolare vernice riflettente.  



Anche New York ha recentemente rivestito di bianco più di 930mila metri quadrati di tetti, riducendo così la temperatura interna degli edifici del 30%. Los Angeles ha sperimentato lo stesso sistema anche per le strade, scontrandosi però con alcuni inconvenienti, come il costo (40mila dollari per chilometro e mezzo) e la scarsa durata (il bianco delle strade non rimane tale tanto a lungo).

In Australia, invece, nella cittadina di Coober Pedy, gli abitanti hanno trovato una soluzione diversa: più della metà di loro (in totale 2500) vive sottoterra. Il motivo? D’estate le temperature raggiungono regolarmente i 52 gradi, mentre sottoterra rimangono costanti attorno ai 23. Perciò hanno costruito case, hotel, bar, negozi e ristoranti nel sottosuolo.

L’Unione europea sembra invece tutt’altro che preparata. Secondo un’inchiesta di Politico, l’adattamento al riscaldamento globale non è una priorità per i leader europei. In primavera, l'Agenzia europea per l'ambiente ha emesso un verdetto schiacciante (ma inascoltato) sulla preparazione del continente ai rischi del cambiamento climatico: “Se non si intraprende un’azione decisiva adesso, i rischi legati al clima potrebbero raggiungere livelli critici o catastrofici entro la fine di questo secolo, e centinaia di migliaia di persone potrebbero morire a causa delle ondate di caldo”. Sebbene la questione fosse presente nei programmi elettorali dei partiti politici Ue, l'invito a “prepararsi alle nuove realtà derivanti dal cambiamento climatico” è quasi scomparso dalla lista delle priorità attuali.

Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), questa impennata delle temperature avrà anche delle forti ripercussioni sul nostro modo di lavorare: l’Ilo ha dichiarato che, nello scenario di riscaldamento globale più favorevole, lo stress da calore si tradurrà entro il 2030 in una riduzione del 2,2% delle ore lavorative globali (l'equivalente di 80 milioni di posti di lavoro a tempo pieno).

Insomma, se non desideriamo vivere un futuro vessati dal caldo estremo – costretti magari a spostarci nel sottosuolo – la soluzione sarà mantenere le temperature entro un grado e mezzo di aumento, combinando questa soluzione con misure (serie) di adattamento alle temperature estreme. E incrociando le dita.  

Copertina: Tomek Baginski/unsplash

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