L’occupazione cresce, ma la povertà non cala. Tra gli indigenti non solo stranieri e disoccupati: tanti giovani e lavoratori poveri, soprattutto minorenni e operai. Una riflessione per combattere la povertà, a partire dalle proposte del Rapporto ASviS.
La prima volta che ho visto bene in faccia la povertà, credevo avesse un volto diverso.
Avevo 16 anni, e la povertà me l’ero sempre immaginata come un senzatetto che chiede l’elemosina o un bambino affamato di un altro continente. Un po’ come quella che vidi nove anni fa quando, visitando l’affascinante Cambogia, tra i sorprendenti templi di Angkor Wat e la maestosità della natura selvaggia, feci tappa ai floating villages, veri e propri villaggi galleggianti che ospitavano nelle acque marroni baracche di legno, scuole, negozi, luoghi di culto e altri servizi, dove i volti stanchi e sporchi che chiedevano l’elemosina esprimevano tutta la fatica del vivere quotidiano. Per questo quando invece a 16 anni, durante un servizio mensa per gli indigenti in Italia, vidi che la povertà poteva avere tutta un’altra faccia, chiesi sconcertata a un altro volontario: “Ma loro non sono poveri, chi sono?”. Non concepivo, infatti, come la povertà potesse avere un “volto normale”. Che il povero potesse essere anche il tuo vicino di casa, un insegnante, il genitore di un’amica.
Il Rapporto nazionale 2024 della Caritas già ci aveva raccontato quest’estate di una povertà ai massimi storici in Italia, con un aumento negli anni del numero di assistiti (+40,7% nel confronto 2019-2023). Ora, con i nuovi dati Istat rilasciati in occasione della Giornata mondiale dei poveri, possiamo capire come sta evolvendo il fenomeno e ricordarci che, tra quei 2,2 milioni di famiglie e 5,7 milioni di individui in povertà assoluta, triplicati nell’ultimo ventennio, non c’è più solo il clochard o il disoccupato: “Essere poveri nonostante si abbia un lavoro sta diventando un fenomeno strutturale nel nostro Paese”, ha affermato Chiara Saraceno su La Stampa, “Bassi salari, precarietà, part-time involontario non consentono di mantenere una famiglia (o di costruirne una), a partire dai costi dell’abitazione”. Proviamo dunque a delineare l’identikit della persona povera di oggi, anche per difenderci con più consapevolezza dalle 10 fake news individuate da Alleanza contro la povertà, come ad esempio l’errata convinzione che chi è povero non lavora o che la povertà colpisce solo il Sud.
MEMBRI DI FAMIGLIE NUMEROSE E CON FIGLI. Tra le famiglie con un maggior numero di componenti l’incidenza della povertà assoluta si conferma più elevata: 20,1% tra quelle con cinque o più componenti e 11,9% tra quelle con quattro. Se poi nella famiglia ci sono tre o più figli minori, la condizione di miseria è più marcata, con un’incidenza al 21,6%.
NON SOLO DISOCCUPATI: OPERAI E LAVORATORI DIPENDENTI. Andando a vedere il legame tra condizione professionale e incidenza della povertà assoluta familiare, emerge ovviamente che l’incidenza è alta se si è disoccupati. Ciò che è interessante notare, invece, è che nel 2023 l’incidenza è diminuita tra chi cerca un’occupazione (20,7%, rispetto al 22,7% del 2022), mentre viceversa le famiglie di operai in povertà assoluta sono aumentate dal 14,7% al 16,5%, il valore più elevato dal 2014. Tra gli occupati in condizione di povertà assoluta, le famiglie di operai (o lavori assimilati) sono quelle che stanno peggio, per effetto dei redditi più bassi.
ANCHE DIRIGENTI, QUADRI E IMPIEGATI. Il povero di oggi, però, può venire anche da categorie storicamente “privilegiate”: l’incidenza della povertà è aumentata per dirigenti, quadri e impiegati dal 2,6% del 2022 al 2,8% del 2023, e persino per la condizione professionale meno correlata all’incidenza della povertà, ovvero quella degli imprenditori e liberi professionisti, si registra una crescita dall1,4% all’1,7%.
STRANIERI. Le famiglie di stranieri rappresentano quasi un terzo dei bisognosi (30,4%, rispetto al 6,3% di quelle interamente italiane), in aumento rispetto al 28,9% del 2022, con quattro immigrati su dieci che sono poveri, residenti soprattutto al Nord. Venuti qui per lavorare, contribuendo allo sviluppo dell’economia italiana (in settori quali agricoltura, industria, ristorazione e assistenza), non guadagnano abbastanza e, come affermato il 17 ottobre dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sono “sovente esposti a uno sfruttamento spietato, inconciliabile con la nostra civiltà”. In questo contesto va richiamato anche il problema dell’economia sommersa, che coinvolge 3 milioni di lavoratori irregolari e che vale 200 miliardi di euro, il 10% del Pil.
RESIDENTI AL SUD, MA IN AUMENTO ANCHE AL NORD. Anche se l’incidenza della povertà assoluta familiare continua a rimanere più alta nel Mezzogiorno, si assiste a un leggero calo (10,2% rispetto all’11,2% del 2022). Diversamente, aumenta sempre più in aree più ricche del Paese e con minor disoccupazione, in particolare tra le famiglie del Nord-Ovest (8%, rispetto al 7,2% del 2022), oltre che nel Centro Italia (6,7% rispetto al 6,4%).
GIOVANI E GIOVANISSIMI. Più del 40% degli indigenti è giovane. Tra questi troviamo 1,1 milioni di ragazzi e ragazze tra i 18 e i 34 anni, con un’incidenza della povertà assoluta all’11,8%, stabile rispetto al 2022. Generalmente le famiglie più giovani hanno meno capacità di spesa: guadagnano mediamente di meno e hanno avuto modo di risparmiare di meno. Molti giovani si trovano a dover fare i conti quotidianamente con le difficoltà di un lavoro precario e di salari bassi, di fronte all’aumento dell’inflazione e ai costi degli affitti, un fattore diffuso tra chi è in stato di indigenza. È importante ricordare, poi, come sottolineato da Enrico Marro su Il Corriere della Sera, che “non affrontare la questione salariale incide sulle prospettive dei giovani, perché a salari poveri corrisponderanno domani pensioni povere, tanto più nel sistema contributivo”.
Tra gli indigenti troviamo anche i giovanissimi: 1,3 milioni di minorenni, con un’incidenza della povertà al 13,8% (in aumento rispetto al 13,4% del 2022), un dato mai così alto dal 2014. Riguarda soprattutto quelli che vivono in famiglie numerose, spesso monoreddito perché per la madre è difficile conciliare un’occupazione con il carico di lavoro familiare in assenza di servizi per l’infanzia. Una situazione che va a pregiudicare il futuro delle nuove generazioni, in controtendenza con gli impegni recentemente assunti con il Patto sul futuro, firmato a settembre da 143 Paesi dell’Onu inclusa l’Italia per ribadire l’impegno comune sulle grandi sfide che ci attendono.
Questo quadro diventa ancora più allarmante se si considera che l’occupazione è in aumento (+2,1%). Ma perché, se l’occupazione sta crescendo, la povertà non sta diminuendo? Lo spiega Linda Laura Sabbadini, su La Repubblica, che invita a guardare “che tipo di lavoro cresce, in quali segmenti della popolazione, con quali retribuzioni e in quali tipologie di famiglie”. Ebbene, nel nostro Paese l’occupazione è cresciuta tra gli ultracinquantenni, che sono meno a rischio di povertà rispetto ai giovani, e tra i dipendenti, dunque le difficoltà si spiegano con l’impatto dell’inflazione e il lavoro povero. Un problema, come sottolineato dal presidente Mattarella, che ha ripercussioni non solo economiche, ma anche sociali: “L’occupazione si sta frammentando tra una fascia alta, in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part-time involontario, e da precarietà. Si tratta di elementi preoccupanti di lacerazione della coesione sociale”. Come intervenire, dunque, per contrastare la povertà e ricucire il tessuto sociale?
Il disegno di Legge di Bilancio 2025 presentato dal governo nei giorni scorsi tocca solo marginalmente questi problemi. Troviamo tra le misure, ad esempio, la conferma del taglio del cuneo fiscale e un rifinanziamento di 500 milioni per la carta “Dedicata a te” (500 euro una tantum per famiglie con Isee fino a 15mila euro), che però non incideranno adeguatamente su salari troppo bassi, precarietà e aumento dei costi della vita. Mentre nel Piano strutturale di bilancio di medio termine non viene chiarito se la Direttiva europea sul salario minimo (da recepire entro quest’anno) sarà utilizzata per incidere sul fenomeno della povertà lavorativa e non viene fatto cenno a un’eventuale modifica dell’Assegno di inclusione (Adi), che ha escluso larghe fasce della popolazione in condizione di povertà assoluta: come avevamo raccontato anche qui, secondo i dati Inps i beneficiari dell’Adi sono stati circa la metà dei percettori del Reddito di Cittadinanza (Rdc) del 2023. Ed è bene ricordare che con l’adozione del Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl), introdotto insieme all’Adi, solo un quinto delle persone in grado di lavorare ha usufruito della misura, una quota ben inferiore a quella inizialmente prevista.
Non è chiaro, dunque, quale sia la strategia complessiva del nostro Paese per affrontare in modo strutturale il fenomeno della povertà, inclusa quella lavorativa.
L’ASviS, nelle pagine del suo Rapporto “Coltivare ora il nostro futuro” presentato il 17 ottobre, offre dati, grafici, valutazioni politiche e proposte sul Goal 1 “Sconfiggere la povertà” dell’Agenda 2030, che prevede con il Target 1.2 di ridurre entro il 2030 “almeno della metà la percentuale di uomini, donne e bambini di ogni età che vivono in povertà in tutte le sue dimensioni in base alle definizioni nazionali”, mentre invece stiamo andando nella direzione opposta. Ve lo racconteremo più in dettaglio sui nostri canali il 28 ottobre, quando partirà proprio con l’Obiettivo Povertà la nostra campagna annuale “Un Goal al giorno”: 17 giorni per approfondire attraverso contenuti testuali e multimediali ognuno dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile.
Tra le raccomandazioni, il Rapporto ASviS propone innanzitutto di correggere le misure create in sostituzione del Reddito di Cittadinanza attraverso: l’estensione dei requisiti di eleggibilità dell’Adi a tutte le famiglie in stato di disagio economico, indipendentemente dall’età o salute; la modifica del requisito dell’età (18-59 anni) per l’accesso al Sfl, utilizzando un criterio che tenga conto delle reali possibilità di trovare un lavoro in base ai diversi livelli di istruzione, competenze, esperienze lavorative; l’accelerazione delle attività di Sviluppo Lavoro Italia Spa (ex Anpal), per poter attuare progetti di attivazione efficaci e ridurre le disuguaglianze di genere e generazionali. Per affrontare il tema della povertà tra i minorenni, come sottolineato nel Rapporto, “è indispensabile e urgente intervenire su tutte le dimensioni della povertà minorile con misure strutturali, integrate e intersettoriali”. La povertà economica, infatti, si traduce in altrettante forme di disagio, come la povertà educativa, quella energetica, quella alimentare. Per contrastare la povertà alimentare, ad esempio, si propone l’inserimento del servizio mensa delle scuole primarie tra i Livelli essenziali delle prestazioni, assicurando copertura e gratuità per tutte le bambine e i bambini, mentre contro la povertà energetica sarebbe utile rendere accessibili le Comunità energetiche rinnovabili alle fasce più povere della popolazione, attraverso strumenti di legge e adeguati fondi.
Per aumentare l’occupazione delle persone in età da lavoro e qualificate, occorre “ripensare l’organizzazione delle politiche attive del lavoro” ed elaborare un serio “Patto per l’occupazione giovanile”, oltre che femminile. Tra l’altro, a proposito di giovani, una risposta alla crisi sta venendo anche dal basso: un nuovo rapporto Confcooperative-Censis ha raccontato il fenomeno degli Eet (Employed, educated and trained), i circa 144mila giovani imprenditori tra i 15 e i 29 anni, preparati e motivati, che creano lavoro, in contrapposizione ai Neet (Not in education, employment or training), giovani che, per cause molteplici e complesse, non lavorano e non studiano e per i quali l’idea di futuro sembra allontanarsi.
Tornando alla politica, c’è un tema al tavolo di discussione sulla povertà che non può più continuare ad essere rinviato: la qualità del lavoro. Occorre contrastare la precarietà intervenendo sulla stabilità contrattuale, garantire salari più decenti e adeguare i salari minimi all’aumento del costo della vita, anche promuovendo la contrattazione collettiva. In sostanza, come ribadito in altre occasioni, è urgente e necessario “innescare un’evoluzione salariale adeguata al contesto macroeconomico e sociale del Paese”.
Francesco Riccardi, su Avvenire, ha sottolineato che se “si è tutti d’accordo che istruzione e occupazione rappresentino gli assi portanti su cui è possibile costruire il percorso di uscita dalla povertà, la formazione e le politiche attive del lavoro dovrebbero diventare le priorità sulle quali investire, la lotta allo sfruttamento un impegno serrato e il recupero degli esclusi dalla scuola, dal mercato del lavoro e dalla società una preoccupazione costante. Assieme a strategie di ‘contorno’ che riguardano anzitutto le politiche per la casa e il diritto all’istruzione, temi finora trascurati”. E soprattutto, conclude Riccardi, “quella che occorre è una vera e propria ‘presa in carico dei poveri’ che finora non si è avvertita”. Insomma, c’è bisogno di un’idea chiara, decisa e coerente della direzione che vuole prendere l’Italia, a partire dalle prospettive per le nuove generazioni.