Approfondimenti
Il contributo dell’orientamento all’Agenda 2030
di Laura Nota e Salvatore Soresi, Università di Padova
Non si può più prescindere dal considerare che il sistema lavorativo sia estremamente differente rispetto agli anni ’80 e ’90. Un nuovo modo di fare orientamento potrebbe essere quello di incoraggiare le persone, i giovani a chiedersi quale contributo ognuno possa fornire per il raggiungimento, entro il 2030, di almeno alcuni dei 17 Obiettivi dell’Agenda 2030.
Luglio - Agosto 2018
Con il futuro, con il tempo che deve ancora avvenire, come dicono i francesi, succedere e accadere, dobbiamo fare i conti, per noi stessi e per i nostri figli e figlie, per le persone a cui teniamo, nonostante sia molto difficile anticiparlo e descriverlo con sufficiente precisione. Esso, come ben sappiamo, avrà a che fare anche con le attività lavorative che vedranno convolti i nostri giovani e le nuove generazioni, che si trovano già a ragionare su quanto accadrà da un punto di vista professionale, a rivedere i propri sogni e desideri, a ricercare nuovi sensi e significati ... aspetti che non possono non interessare chi si occupa di orientamento e di progettazione professionale.
Tutto ciò, di fatto, mobilita pensieri, preoccupazioni, riflessioni, emozioni, comportamenti, ovvero l’agenticità delle persone. Quest’ultima, però, non si attiva ‘cliccando’ un pulsante, digitale o meno, avviando un download, o aprendo un’applicazione. E’ un processo, complesso e delicato allo stesso tempo, frutto di apprendimento e, soprattutto, di adeguate interazioni tra la persona (con le sue capacità, le sue credenze, i suoi pregiudizi, le sue volontà) e i contesti nei quali si trova immersa e che potrebbero stimolare, facilitare, incoraggiare, supportare l’agenticità, ma anche inibirla, impedirla, manipolarla, ingabbiarla, ecc.. Così, riflettendo a proposito di orientamento e di servizi per l’inclusione lavorativa, non possiamo più prescindere dal considerare che stiamo vivendo in tempi molto diversi da quelli degli anni 80 e 90 quando si respirava aria di crescita e di ampie opportunità e si poteva fare affidamento su una visione lineare della realtà, che prevedeva una formazione iniziale, un breve periodo dedicato all’inserimento lavorativo e il successivo conseguimento di una posizione stabile con contratti a tempo indeterminato. Ora il presente e il prossimo futuro si presentano con tassi di incertezza, cambiamento e complessità tali da far registrare impatti spesso negativi anche a carico dello stato di salute e di benessere delle persone. I cambiamenti che possiamo osservare da più parti e da diverse angolazioni (da quello della formazione e dell’inclusione lavorativa per quanto concerne l’orientamento) non possono essere più considerati alla stregua di eventi passeggeri ed eccezionali, non sono più ‘una tantum’, come in passato; se questi da un lato stanno provocando per alcuni opportunità inattese, dall’altro riescono a creare disagi ed esclusioni ai più, persino a coloro che appartengono alla classe media, che in passato e in molti paesi si sentivano, tutto sommato, protetti e tutelati.
Sempre a proposito di orientamento, oggi, a differenza del passato, i binomi che tradizionalmente regolavano il tema della scelta e dell’inclusione lavorativa (titolo di studio e lavoro; scelte e decisioni; profili personali e collocamento; domanda e offerta; maturità e stabilità lavorativa, formazione professionale e sicurezza lavorativa, ecc.) sembrano non valere più e lasciare spazio ad altri decisamente più preoccupanti quali quelli dell’incertezza e dell’insicurezza, della flessibilità e della precarietà, del mercato e della competizione, e così via. Oggi chi fa orientamento e chi si propone di aiutare le persone a inserirsi nel mercato del lavoro deve considerare che occuparsi di futuro significherà sostanzialmente riflettere a proposito di come fronteggiare alcune preoccupanti minacce quali quella della crescente disuguaglianza, della polarizzazione della ricchezza e del lavoro, dell’incremento dei movimenti dei popoli, con tassi di migrazione in aumento, dell’esaurirsi delle risorse naturali, dell’impatto della tecnologia sul lavoro e sulla qualità della vita, della presenza di condizioni lavorative sempre più precarie e poco dignitose e della paradossale richiesta che si indirizza alle persone di diventare più competitivi, più resilienti, di essere ‘costantemente’ pronti e all’altezza di imprevedibili opportunità, di diventare ‘imprenditori’ di se stessi nonostante l’assenza di reali capitali da mettere in gioco. Non possiamo più nascondere il fatto, come documenta anche ASviS, che quanto sopra deriva da miopi ed egoistiche scelte di ‘sfruttamento delle risorse’, da politiche interessate soprattutto alla gestione del presente e al mantenimento del consenso rinforzando, di fatto e in tal modo, la tendenza allo depauperamento delle risorse naturali, a un consumismo così sfrenato e inquinante da mettere seriamente a rischio la vita futura del nostro stesso pianeta.
Dati questi scenari, di cosa deve occuparsi l’orientamento? Come dovrebbe operare per contribuire a un futuro di qualità per tutti?
L’Orientamento in favore del benessere delle persone e dell’agenda 2030
Le pratiche di orientamento e i servizi che in Italia si occupano di inserimento lavorativo sembrano di fatto ignorare ciò che il futuro ci riserverà e l’urgenza di apportare significativi cambiamenti alle idee dominanti di sviluppo e di progettazione, anche professionale, del futuro. In ossequio a visioni marcatamente individualiste e neoliberiste, nell’orientamento che va per la maggiore nelle nostre scuole, nelle nostre università e nei nostri centri per l’impiego, si continua a operare ritenendo di fatto ancora possibile sbandierare il motto dell’uomo giusto al posto giusto, della competizione e della valorizzazione dei propri talenti, dimenticando che trattasi di equazioni che potranno forse valere ancora solo per una piccola minoranza di persone. Il futuro sarà migliore solamente se le scelte e le progettazioni anche lavorative dei nostri giovani, soprattutto, saranno meno ‘ego-centriche’ e maggiormente orientate a prediligere azioni e attività da porre in essere non solo per il proprio benessere, ma anche per contribuire, ispirandosi a valori meno individualistici, alla realizzazione di condizioni e contesti di vita di qualità per tutti nei quali solo un’utopia di sviluppo equo e sostenibile, come dice Giovannini (2018), dovrebbe trovar spazio e seguito.
Da almeno una decina d’anni a questa parte anche alcuni ricercatori [1], che non sono purtroppo riusciti a farsi ascoltare da coloro che, da noi, decidono i programmi di orientamento e gli standard dei servizi per l’impiego e l’inserimento lavorativo, hanno posto seriamente in discussione le pratiche usuali affermando a chiare note che non possono più essere ‘quelle di una volta’ e che, con i tempi che corrono, vanno abbandonate quelle visioni semplicistiche e neoliberiste che pongono al centro dell’occupabilità (o employability come alcuni preferiscono) le caratteristiche individuali e le competenze possedute dalle persone. Così facendo si ignorano almeno due questioni di fondo:
- da un lato, il fatto che l’inclusione lavorativa implica soprattutto “buone e dignitose” condizioni di lavoro, la disponibilità di posti di lavoro effettivamente adatti a una vita di qualità, alla partecipazione, alla collaborazione e all’impegno di tutti in favore di una comunità solidale e di uno sviluppo effettivamente equo e sostenibile;
- e, dall’altro, la constatazione che le competenze, al di là di classificazioni più o meno di moda, non sono questioni private, personali, da inserire in un profilo da presentare a destra e manca, ma riguardano le relazioni (casuali e non) che regolano gli eventi umani e i nessi esistenti tra le cose, i contesti, gli ambienti, i fatti. Va recuperata l’evidenza che sottolinea chiaramente che le nostre azioni, il nostro tentare, il nostro agire, la nostra capacità di risolvere problemi, non rappresentano il capitale di un individuo, ma il patrimonio di quegli ambienti e di quelle relazioni che le hanno rese possibili producendo apprendimento e incremento di possibilità. I programmi di orientamento, da questo punto di vista, dovrebbero proporre occasioni di ‘possibilitazione’, come direbbe Heidegger, e di riflessione a proposito delle competenze che, grazie agli altri e alle ‘relazioni’, si è riusciti ad apprendere e a manifestare e che derivando dall’agire con, non rappresentando necessariamente l’armamentario del gareggiare contro, ma soprattutto il ‘chiedere, il dirigersi e l’andare insieme’, non sono dell’individuo, ma ‘nostre’, appartenenti, cioè, ai contesti che le hanno rese possibili.
Purtroppo le pratiche che si realizzano, in barba alla ricerca scientifica, al long life learning, alla deontologia professionale, continuano a trattare le tematiche della progettazione professionale come se esistessero ancora e per tutti ampie possibilità di scelta e come se fossero ancora validi quei profili professionali che la psicologia del lavoro e dell’organizzazione avevano predisposto alcuni decenni fa, prima che le preoccupazioni per il futuro nostro e del nostro pianeta mettessero tutto ciò in seria discussione. Le procedure che continuano ad andare per la maggiore, nei servizi di orientamento, di placement, di career counseling, sembrano infatti sempre più vicine ai sistemi di selezione di studenti, di candidati, di persone, incentrandosi di fatto su quei modelli di matching e di profiling che da tempo una buona parte della ricerca scientifica contemporanea ha sconfermato proprio perchè non è più possibile effettuare previsioni sufficientemente precise dato che sia le persone che gli ambienti formativi e lavorativi tendono a cambiare repentinamente, a essere fluidi, instabili e imprevedibili (vds al riguardo l’approccio Life Design, Savickas et al., 2009; Savickas, 2011; Nota e Rossier, 2015; Reid, 2016; Solberg e Ali, in press).
Un tale modo di procedere è stato possibile fino alle ultime decadi del novecento quando sia le persone che i contesti lavorativi, formativi e sociali potevano essere abbastanza facilmente “esplorati”, analizzati, valutati, decritti, previsti, ricorrendo agli stessi e sovrapponibili parametri (quelli delle attitudini, degli interessi e delle competenze possedute e richieste - lavori e persone “investigativi”, “convenzionali”, “sociali”, ecc., solo per ricordare alcune delle più celebri ‘tipologie’ e classificazioni) e soddisfacendo, teoricamente almeno, il mitico bisogno di incontro tra domanda e offerta, come ha ricordato Soresi (2018) nell’ultimo numero della Newsletter della Società Italiana Orientamento.
Ma oggi di quale incontro possiamo parlare? Ogni ambiente professionale si presenta in evoluzione, in cambiamento; le competenze che vengono ipotizzate come necessarie sono in realtà difficili da circoscrivere e definire e appaiono molto simili, se non proprio identiche, anche quando si considerano professionisti impegnati in compiti richiedenti prestazioni marcatamente diverse. Quali professioni, ad esempio, potrebbero oggi permettersi di non manifestare ‘capacità di ascolto’, o ‘abilità di problem solving’, competenze sociali, ‘capacità di gestione delle tecnologie’, o di non considerare i temi della sostenibilità e l’inclusività’? Possiamo pensare, suggerire, orientare a lavori intenzionalmente attivati per favorire quello che Frank, Carroll-Nellenback, Alberti e Kleidon (2018) chiamano ‘collasso dell’intera umanità’ o quella ‘definitiva distruzione di massa’ di cui parla
Noam Chomsky (2018) che da molti è considerato la “coscienza morale dell’America”?
Come ricercatori e come soci fondatori della Società Italiano per l’orientamento (SIO) siamo molto preoccupati nel costatare che da noi l’orientamento troppo spesso sembra:
- essere usato da committenti non sempre interessati al benessere delle persone e al bene comune, ma, soprattutto, al potenziamento della competitività a vantaggio del mercato, dell’economia, della finanza, o del successo della formazione e della ricerca;
- essere strumentalizzato per poter ‘mascherare’, di fatto, operazioni di ‘scelta’ delle persone alle quali permettere, suggerire, o vietare accessi e opportunità, come avviene in molti atenei e scuole italiane;
- essere praticato da insegnanti e operatori non sufficientemente e specificatamente formati ad aiutare persone e contesti a progettare il loro futuro;
- perdere ogni spessore scientifico in favore di approcci marcatamente superficiali e semplicistici a proposito dello sviluppo futuro e dell’impiegabilità delle persone ricorrendo ancora a ‘consigli di orientamento’ e a una serie di slogan e di luoghi comuni che poco hanno a che fare con il dibattito che in materia sta proponendo la comunità scientifica internazionale[2];
- schierarsi di fatto dalla parte dei committenti, delle eccellenze, del mito della meritocrazia, dei competenti, del profitto e della produttività, manifestando in tal modo una sorta di irrilevanza sociale a proposito, almeno, della volontà e possibilità di difendere i diritti delle persone più svantaggiate supportandole adeguatamente nei loro progetti di realizzazione ed emancipazione.
L’orientamento, in Italia in particolare, dovrebbe mettere in atto un deciso cambio di passo, una, oseremmo dire, ‘distruttive innovation’; per non ‘cadere così in basso’ e per non ripudiare la sua stessa natura costitutiva (si ricorda che all’orientamento, dal suo fondatore storico Frank Parsons, erano state associate soprattutto finalità di tipo preventivo e obiettivi di emancipazione dei gruppi sociali maggiormente svantaggiati!) dovrebbe chiedere ai suoi professionisti di fare la loro parte in favore di uno sviluppo equo e sostenibile per tutti cogliendo l’appello e l’invito che le Nazioni Unite e, da noi, l’ASviS, hanno lanciato ai governi, alle istituzioni, alle comunità e ai cittadini di tutto il mondo.
Da quest’angolazione un nuovo modo di fare orientamento potrebbe essere quello di incoraggiare le persone, i giovani, soprattutto, a pensare al proprio futuro uscendo da una visione prettamente individualistica e chiedendosi anche quale contributo ognuno e ognuna può fornire al raggiungimento, entro il 2030, di almeno alcuni dei 17 obiettivi che la stessa Organizzazione delle Nazioni Unite ha indicato con chiarezza al mondo intero.
Tutti i progetti di orientamento, in altri termini, dovrebbero stimolare le persone a riflettere a proposito delle minacce che stanno minando il benessere delle persone e la qualità della vita del nostro pianeta declinando e progettando in questa direzione anche le proprie aspirazioni e progettazioni formative e professionali.
Le cose da farsi per dare vita e praticare un orientamento diverso, effettivamente orientato a uno sviluppo equo e sostenibile sono decisamente molte:
- in primo luogo, facendo orientamento, bisogna parlare di futuro e farlo anche alla luce delle sfide sollecitate dall’ONU e di tassonomie di attività professionali e di percorsi formativi effettivamente congruenti con quanto necessario per affrontarle e per contribuire al raggiungimento degli obiettivi a esse associati[3];
- in secondo luogo, sempre parlando di futuro, molto spazio deve essere attribuito all’approfondimento delle questioni associate alla partecipazione, alla dimensione sociale del lavoro e alla disamina delle scelte, anche personali, in grado di favorire uno sviluppo effettivamente sostenibile a vantaggio del benessere e dell’inclusione di tutti;
- piuttosto che trattare, misurare, valutare, quelle che un tempo venivano considerate le più importanti determinanti del successo accademico e professionale (interessi, attitudini, competenze, motivazioni al successo, alla leadership, all’autoimprenditorialità, ecc.), chi fa orientamento dovrebbe proporre occasioni di approfondimento e di riflessione a proposito di altri costrutti, valori e sensibilità, quali quelli dell’adaptability[4], dell’importanza dell’investimento nello studio e nell’aggiornamento continuo, di come, nonostante tutto, sia possibile progettare in condizioni di incertezza, lavorare dimostrando spirito di collaborazione, ‘saggezza e senso critico’, cosmopolitismo, resilienza, ottimismo, ma anche gentilezza e coraggio di ‘manifestare’ (rendere evidente) le proprie ‘indignazioni’ e i propri valori.
Un orientamento che dia il suo contributo all’Agenda 2030 dovrà puntare a realizzare azioni di career intervention in grado di stimolare scelte e progettazioni professionali:
- evitando riflessioni orientate al passato e la tendenza ad assoggettarsi alla tirannia del presente, all’opportunità di essere realistici rimanendo vincolati all’hic et nunc, al limitante valore dato all’eccellenza e alla competizione, all’individuazione delle ‘persone giuste’ da ‘impiegare’ per il perseguimento di obiettivi, di interessi che, il più delle volte, non coincidono con quello che viene chiamato ‘bene comune’;
- riducendo drasticamente l’abitudine a organizzare attività di orientamento standardizzate, uguali per tutti, siano essi studenti di questa o quella scuola, o utenti di questo o quel centro per l’impego, ma dando spazio alle specificità, alle unicità delle persone, al loro diritto di ricevere attenzioni massicciamente personalizzate, senza che per questo si sia assoggettati a confronti e comparazioni, profili e collocamenti suggeriti di fatto dalla stima di quanto una persona o una prestazione possa essere ritenuta al di sotto o al di sopra di una media o di una soglia di accettabilità;
- dando spazio alle possibilità, alle opportunità, alle conclusioni originali, imprevedibili, sorprendenti, facendo sì che gli autori delle ‘storie di futuro’ siano stimolati e incoraggiati a costruire, o meglio, in un’ottica inclusiva, a co-costruire sviluppi e conclusioni improbabili, nuovi progetti, nuove traiettorie, nuove storie;
- stimolando a pensare di meno in modo narcisistico a se stessi e a se stesse e ai propri orticelli passati e presenti e un po’ di più e più spesso a ciò che potrà accadere anche agli altri, alla salvaguardia del nostro pianeta, individuando responsabilità, impegni e, come suggerisce il nostro progetto di orientamento, a quale mission possibile si desidera intraprendere e porre in essere per il proprio futuro (Nota, Soresi, et al., 2018).
Così facendo l’orientamento potrebbe recuperare il suo spessore scientifico e apparire ancora come socialmente rilevante. E’ evidente che gli orientatori e i servizi per l’impego e il lavoro debbono decidere da che parte stare… in epoche di incertezza e di transizioni importati come quelle che stiamo vivendo non si può essere neutrali, stare in mezzo, ritenere che ci si possa occupare di sviluppo sostenibile ‘un po’, in parte, qualche volta … Abbiamo bisogno di professionisti che invitino a ‘Stay passionate, courageous, inclusive, sustainable, ecc...’ come nell’ambito del Laboratorio Larios e assieme alla Società Italiana Orientamento abbiamo recentemente proposto nel corso di un seminario realizzato alcuni mesi fa presso l’università di Padova presentando una serie di strumenti e di attività per l’organizzazione di moduli di orientamento inclusivo e sostenibile che, esplicitamente, si ispirano all’Agenda 2030. In quell’occasione, l’orientamento è stato proposto come un’occasione per favorire ‘l’attivarsi di processi cognitivi e non implicati nelle operazioni di rappresentazione dei possibili scenari futuri, proponendosi, al contempo, di contribuire all’incremento delle competenze necessarie alla promozione di un avvenire e di uno sviluppo sostenibile, inclusivo e di qualità per tutti’[5]
Bibliografia
Chomsky N. e Polychroniou C. J. (2018). Ottimismo (malgrado tutto). Capitalismo, impero e cambiamento sociale. Milano: Ponte alle Grazie
Frank A., Carroll-Nellenback J., Alberti M. e Kleidon A. (2018). The Anthropocene Generalized: Evolution of Exo-Civilizations and Their Planetary Feedback. Astrobiology, 18, 503–518
Giovannini, E. (2018). L'utopia sostenibile. Laterza, Bari.
Nota, L., & Rossier, J. (2015). Handbook of life design: From practice to theory and from theory to practice. Hogrefe, Göttingen.
Nota, L., Soresi, S., Ginevra, M.C., Santilli, S. & Di Maggio, I. (2018). Il progetto ‘Stay passionate, courageous, inclusive, sustainable… Nuove piste e nuove strumenti per l’orientamento’. Presentato al XVIII CONVEGNO SIO: il contributo dell’orientamento e del counselling all’agenda 2030, Roma Giugno 2018
Reid, H. (2016) An Introduction to Career Counselling and Coaching, London: Sage.
Savickas M. (2011). Career Counseling. Washington: American Psycholocal Association
Solberg V.S. & S. Ali S. (in press). Handbook of career and workforce development: Practice and policy. NY: Routledge.
Soresi, S. (2018). In materia di orientamento, ha ancora senso formulare consigli e proporre profili?, La parola all’Orientamento - La rivista online per l’orientamento, 1, 2018.
[1] Ne fanno fede gli abstract del XVIII congresso della Società Italiana Orientamento ‘Il contributo dell’orientamento e del counseling all’Agenda 2030’ (https://www.sio-online.it/xviii-convegno-sio/) e quelli dell’International Conference ‘Decent work, Equity and Inclusion’ (5-7 ottobre 2017) (https://www.unipd.it/counseling-and-support2017), organizzata dalla SIO, dal Laboratorio Larios, Università di Padova (http://larios.psy.unipd.it/it/) e dall’European Society for Vocational Designing and Career Counseling (http://www.esvdc.org/).
[2] A riprova di ciò basti pensare che nei documenti ufficiali in materia di orientamento che vengono redatti da ministeri, da agenzie europee, da organizzazioni del lavoro, da Istituti scolastici e persino dai servizi universitari è assente il richiamo a un’aggiornata e scientifica bibliografia e si fa ricorso a un linguaggio prettamente burocratico-amministrativo.
[3] Come è stato recentemente riferito nel corso dei lavori del XVIII congresso nazionale della SIO ‘Il contributo dell’orientamento e del counseling all’Agenda 2030’, nel riportare alcuni dati di ricerca del Laboratorio Larios, sono molto pochi i giovani, in procinto di scegliere un percorso universitario, a essere a conoscenza degli obiettivi dell’ONU: solamente un terzo degli obiettivi viene considerato in grado di incidere in modo significativo sulla qualità della propria esistenza e questo viene indicato solamente dal 35% degli studenti e delle studentesse.
[4] Si tratta di un costrutto molto diverso da quello tradizionale dell’adattamento: l’adaptability, infatti, riguarda la propensione a riconoscersi un ruolo attivo nella costruzione del proprio futuro, a preoccuparsi per esso, ad agire in modo curioso per conoscere meglio la realtà credendo anche, al contempo, nelle proprie capacità di poter incidervi significativamente (Savicaks, 2011).
[5] Le università, i servizi di orientamento, le agenzie del lavoro e gli orientatori interessati a partecipare all’utilizzazione a sperimentazione del progetto ‘Stay passionate, courageous, inclusive, sustainable, ecc...’ (Nota et al., 2018) sono invitati a contattare il Laboratorio Larios (larios@unipd.it).