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Notizie

Gli studi pubblicati per la Cop 29 ci dicono che la Conferenza non deve fallire

Dal rapporto Unep sulle emissioni all’adattamento, dall’analisi Ecco sul Pniec all’indagine Amref-Ipsos sulla percezione degli italiani della questione clima. Una panoramica dei report per seguire informati la Cop di Baku. 13/11/24

mercoledì 13 novembre 2024
Tempo di lettura: min

In questi giorni si sta svolgendo la Cop 29 di Baku, e durerà fino al 22 novembre. I risultati della conferenza annuale sul clima, data l’aria che tira in America e non solo, sono più che incerti. Ma le Cop, oltre a essere un’occasione per discutere e alzare il tiro sugli obiettivi climatici, sono anche un momento in cui le grandi organizzazioni internazionali che si occupano di cambiamenti climatici fanno sentire la loro voce, attraverso dichiarazioni, studi, report. L’obiettivo è esercitare una pressione sull’operato dei governi riuniti nelle Cop e, perché no, utilizzare l’attenzione mediatica rivolta alla conferenza per far emergere dati che, in altri momenti dell’anno, non riempirebbero le pagine delle testate nazionali e internazionali.

Ecco qui alcuni dei documenti più importanti usciti in questi giorni.

Il tasto dolente delle emissioni

Ogni anno il Programma delle Nazioni unite per l'ambiente (Unep) pubblica, in vista dell’avvio dei negoziati sul clima, il suo Emissions gap report, documento che analizza il divario tra le emissioni globali stimate sulla base degli impegni internazionali e gli sforzi necessari per mantenere l’aumento di temperatura media all’interno degli 1,5 gradi, proponendo strategie per aggiustare la rotta. Nello specifico, il rapporto di quest’anno individua le azioni necessarie per accelerare l’azione sul clima in vista della presentazione degli impegni nazionali al 2035 e 2040, previsti entro la Cop 30.

Come fa notare il think tank Ecco in questo interessante approfondimento sul tema, il messaggio chiave è che l’ambizione non significa nulla senza azione. Le emissioni globali sono infatti in salita (a un ritmo superiore rispetto a quello pre-Covid) e il periodo 2030-2035 sarà cruciale per mantenere la speranza di restare entro l’obiettivo 1,5 gradi. Gli Stati devono dunque alzare l’asticella dell’ambizione, accompagnando i proclami con strategie concrete.

Le emissioni di gas serra nei Paesi del G20 sono aumentate dell'1,2% nel 2022, una crescita che rimane accoppiata a quella economica, dal momento che le emissioni si sono distribuite in modo non uniforme, raggiungendo il picco nei Paesi che hanno registrato una crescita maggiore.

Per intraprendere il percorso meno oneroso per gli 1,5 gradi, dice l’Unep, le emissioni devono scendere del 42% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2019. Per i due gradi, si parla del 28%, sempre entro fine decade. Guardando al 2035, la prossima pietra miliare dopo il 2030, le emissioni dovranno scendere del 57% per 1,5 gradi e del 37% per restare entro i due.

Tanti dati che però vogliono dire una cosa specifica: “Ogni frazione di grado evitato conta in termini di vite salvate, economie protette, danni evitati, biodiversità preservata e capacità di ridurre rapidamente qualsiasi superamento della temperatura”. Per essere più chiari sulla necessità di raggiungere questi traguardi globali, qui sotto un video prodotto dall’Unep, in stile videogame.

Nonostante la portata del compito, l’Unep resta fiduciosa, e resta dell’opinione che sia “tecnicamente possibile” ridurre le emissioni, in linea con un percorso di 1,5°C. Come?

Il rapporto mostra prima di tutto come il divario di emissioni previste per il 2030 e 2035 (divario che separa le politiche attuali da ciò che dovremmo fare per mantenerci entro 1,5 gradi) potrebbe essere colmato a un costo inferiore a 200 dollari per tonnellata equivalente di CO2.

Un utilizzo più esteso delle tecnologie fotovoltaiche e dell’energia eolica potrebbe fornire il 27% di questo potenziale di riduzione delle emissioni totali nel 2030 e il 38% nel 2035. Un'azione di protezione delle foreste e riforestazione fornirebbe un altro 20% di potenziale. Altre valide opzioni includono misure di efficienza energetica, elettrificazione e passaggio a risorse alternative ai fossili nel settore edilizio, dei trasporti e industriale.

Adattamento: una questione di finanziamenti

Mentre gli impatti climatici si intensificano e colpiscono più duramente le aree povere del mondo, l'Adaptation gap report 2024 (elaborato sempre dall’Unep) traccia un quadro sugli impegni attuali e futuri in termini di adattamento ai cambiamenti climatici, sottolineando quanto il primo passo per migliorare la situazione sia prevedere un aumento dei finanziamenti, tema che sarà discusso in sede Cop 29.

I flussi finanziari pubblici internazionali per l'adattamento sono in aumento, ma resta “un divario enorme tra ciò che è necessario e ciò che viene realizzato”. I fondi internazionali verso i Paesi in via di sviluppo sono aumentati da 22 miliardi di dollari nel 2021 a 28 miliardi di dollari nel 2022 (il più grande incremento dai tempi dell'accordo di Parigi).

Il fatto è che il surriscaldamento globale non si ferma: se l’aumento della temperatura arriverà a oscillare tra 2,6 e 3,1 gradi (come previsto nello scenario peggiore identificato dal Rapporto) i soldi investiti nel finanziamento verde non basteranno.

Inoltre, i Paesi in via di sviluppo, oltre ad affrontare le perdite e i danni generati dal surriscaldamento globale, devono combattere contro gli oneri dei debiti contratti con i Paesi sviluppati negli scorsi decenni, aspetto che rende ancora più difficile per loro imboccare un percorso sostenibile.

Il Glasgow climate pact (accordo sul clima raggiunto durante la Cop 26), ad esempio, ha esortato le nazioni sviluppate ad “almeno raddoppiare” i finanziamenti per l’adattamento ai Paesi in via di sviluppo. Target difficile, e che comunque non sarebbe sufficiente. Per intenderci, anche raggiungendo gli obiettivi di Glasgow il divario finanziario per l’adattamento, stimato tra 187 e 359 miliardi di dollari all'anno, si ridurrebbe solo del 5%.

“La pianificazione e l'implementazione di piani di adattamento sono in aumento, ma non abbastanza rapidamente”, commenta l’Undp. A oggi, infatti, 171 Paesi hanno stabilito almeno una strategia o un piano di adattamento nazionali; di questi, il 51% ne ha un secondo e il 20% un terzo. Inoltre, 16 dei 26 Stati senza uno strumento di pianificazione nazionale ne stanno sviluppando uno, mentre i restanti 10 non mostrano alcuna intenzione di voler sviluppare strumenti simili (nonostante setti di questi si trovino nelle prime posizioni del Fragile states index, studio che mappa i Paesi più fragili del mondo). “C’è bisogno di un supporto economico maggiore e di una maggiore ambizione”.

L’Italia e il Pniec, secondo Ecco

Il Piano nazionale integrato energia e clima è lo strumento più importante che abbiamo nel nostro Paese per ridurre le emissioni nette del 55% al 2030 rispetto ai livelli del 1990, come parte degli impegni Ue. Ma non è così efficiente. Proprio in occasione della Cop 29, Ecco ha pubblicato (e aggiornato) la sua analisi del Piano, che, come sottolineato anche dal Rapporto ASviS, risulta insufficiente sotto alcuni punti di vista.

Il Piano manca dichiaratamente alcuni obiettivi stabiliti dal Fit for 55, come dimostrato dalle analisi del think tank, puntando a una riduzione delle emissioni del 40% anziché del 43,7% al 2030 nei settori di Effort sharing (quei settori dove è richiesto l’impegno condiviso di tutti i Paesi Ue) rispetto al 1990, senza indicare misure o meccanismi per colmare questo divario. Una distanza che costa secondo Ecco 15 miliardi di euro.

In un aggiornamento dell’analisi del Pniec in occasione della Cop, Ecco evidenzia che in Italia, nei settori Effort sharing, le emissioni sono calate tra il 2021 e il 2022, passando da 280 MtCO2eq (milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente) a 271MtCO2eq, in ogni caso superiori rispetto agli obiettivi europei, mentre nei settori Ets (emission trading system), nel periodo 2021-2022, le emissioni sono aumentate da 131 a 136 MtCO2eq, con un incremento di 9 MtCO2eq nel settore energetico, spinti dal ricorso al carbone nelle centrali termoelettriche.

Nel settore elettrico le rinnovabili stanno recuperando terreno: si parla di 5,8 gigawatt (Gw) in più nel 2023, e nei primi otto mesi del 2024 ulteriori 4,8 Gw, ma molti sforzi sono ancora necessari per arrivare ai 70 Gw aggiuntivi previsti per il 2030.

“Sul settore industria e civile si registrano timidi passi avanti, ma questi ultimi sono ancora poco incisivi”, segnala Ecco. Mentre sono di segno molto negativo “le tendenze del settore trasporti in cui, ancora una volta, le emissioni sono in netto incremento, con un +6,7% nel 2022 rispetto all’anno precedente”.

Il sondaggio Amref

Chiudiamo con una nota positiva, o quasi. Secondo una ricerca realizzata da Ipsos per Amref, pubblicata sempre in occasione della Conferenza di Baku, l’87% degli italiani ritiene che il cambiamento climatico rappresenti una grave minaccia per il mondo intero, soprattutto per la salute globale degli individui (preoccupazione che sale al 92% tra la GenZ).

Secondo gli intervistati, la manifestazione del cambiamento climatico che avrà le peggiori conseguenze nel nostro pianeta è rappresentata dall’aumento delle ondate di calore e dall’innalzamento delle temperature (47%, che sale al 53% tra la GenZ). Al secondo posto l’aumento della siccità e la diminuzione della disponibilità di acqua (43%), a seguire la diminuzione della disponibilità di cibo causata dagli impatti del clima sull’agricoltura (41%, con +4% rispetto allo scorso anno) e l’aumento delle alluvioni (32%). Tutti effetti che, se vengono già registrati in Italia, hanno un impatto ancora maggiore in Africa, area di particolare interesse per Amref.

Il 61% degli intervistati reputa infatti che il cambiamento climatico impatti maggiormente sui Paesi a basso reddito. L’Africa è a oggi una delle regioni più colpite da questa crisi, nonché una delle meno in grado di farvi fronte, nonostante sia responsabile di meno del 10% delle emissioni.

Un esempio: la crisi climatica sta giocando un ruolo decisivo nel continente per l’accesso all’acqua. Un abitante africano su tre è afflitto dal problema della scarsità idrica, mentre 779 milioni di persone non hanno accesso ai servizi igienici di base. “L'accesso all'acqua potabile e ai servizi igienici è un diritto umano e innesca un effetto a catena”, sottolinea Amref. “Quando le persone hanno accesso all'acqua potabile sono in grado di esercitare meglio i loro diritti, alla salute, all'istruzione, al lavoro e a un ambiente pulito”.

Aderenti

Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile - ASviS
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