Editoriali
Non possiamo pensare di salvare soltanto un pezzo del nostro mondo
Nei Paesi più sviluppati la transizione ecologica offre grandi opportunità di investimenti. Ma la pandemia ha colpito duramente i Paesi più deboli, che hanno comunque un ruolo fondamentale contro la crisi climatica.
di Donato Speroni
Ci sono luci e ombre, nell’analisi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che il presidente dell’ASviS Pierluigi Stefanini ha presentato giovedì 27 al governo, alla Commissione europea e all’opinione pubblica. Il Pnrr è un passo nella giusta direzione, ma non garantisce che gli Obiettivi dell’Agenda 2030 importanti per l’Italia siano davvero raggiunti. Sulla transizione ecologica, in particolare, ci sono pareri discordanti che riguardano i criteri per gli investimenti nelle rinnovabili, il ruolo dell’idrogeno e anche le eventuali minicentrali nucleari alle quali ha accennato il ministro Roberto Cingolani.
Su questi temi, del resto, la discussione è viva non soltanto in Italia. Le cronache di questa settimana fanno registrare il dissenso tra i 27 Paesi dell’Unione europea su come ripartire l’onere della decarbonizzazione al 55% entro il 2030 perché non tutti gli Stati sono allo stesso punto di partenza. Anche nel mondo delle grandi compagnie petrolifere c’è molto fermento. Il tribunale distrettuale dell’Aja ha condannato in prima istanza la Royal Dutch Shell a ridurre del 45% entro il 2030 non solo le sue emissioni dirette ma anche quelle dei suoi prodotti. Persino nell’azionariato di Exxon Mobil, il più grande e coriaceo gruppo petrolifero che per molto tempo ha negato il cambiamento climatico, si sta ora affermando una componente dell’azionariato che chiede una rapida uscita dai fossili.
Come abbiamo segnalato la scorsa settimana, l’Agenzia internazionale per l’Energia (Iea) in vista della Cop 26 che si svolgerà a Glasgow a novembre e dalla quale ci si aspettano indicazioni decisive sulla mitigazione della crisi climatica, ha preparato un rapporto molto stringente sulle implicazioni dell’obiettivo della neutralità climatica al 2050. Il rapporto è stato dettagliatamente esaminato, sul Foglio, in un articolo firmato da Chicco Testa, esperto di energia ed ex presidente dell’Enel, e Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni. Testa è da sempre a favore dell’energia nucleare e di recente ha anche scritto un saggio “contro l’integralismo ecologico”. L’Istituto Leoni è la roccaforte del liberismo in Italia e avversa qualsiasi espansione dei pubblici poteri. Insomma, una visione di parte, si può dire. Ma le argomentazioni esposte nell’articolo vanno esaminate con attenzione. Il nodo centrale che i due autori colgono è che l’azzeramento delle emissioni si può ottenere solo con una intensissima accelerazione della elettrificazione, con energia ottenuta da fonti rinnovabili, oltre che con un aumento del ricorso all’energia nucleare, come di fatto sta avvenendo in molti Paesi. Ma le rinnovabili hanno i ben noti problemi di intermittenza, perché il sole e il vento non ci sono sempre, e l’elettrificazione parte da posizioni molto arretrate nei Paesi in via di sviluppo.
Lo scenario prevede che dal 2035 non sia più possibile produrre e vendere auto a combustione. Il che vuol dire che intorno al 2050 non ce ne dovrebbero essere più in circolazione. Questo è possibile, forse, a Milano, Parigi o San Francisco. Ma come avvenga a Mumbai, Nuova Delhi, Nairobi o Lagos, città con decine di milioni di abitanti, con consumi elettrici, quando ci sono, a livelli infimi, con reti elettriche poverissime e instabili, con frequenti black out e cadute di tensione continua sfugge a ogni previsione di buonsenso.
L’articolo contiene molte altre considerazioni sulla difficoltà di raggiungere un obiettivo di decarbonizzazione al 2050, ma mi soffermo su questo aspetto, della debolezza delle reti elettriche nei Paesi in via di sviluppo, perché mette in luce il carattere globale della sfida che abbiamo davanti. La rivoluzione della mitigation non serve se non è estesa a tutto il mondo, come ha ribadito, nel corso del webinar dell’ASviS, anche il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans.
Per i Paesi già sviluppati, la scommessa è difficile ma non impossibile. Il Green deal, la rivoluzione verde, può tradursi in un incentivo alla economia e alla occupazione. La tendenza a un aumento degli investimenti, che si riscontra negli Stati Uniti e in Europa in questa fase di uscita dalla pandemia, può agevolare la transizione. Scrive Bloomberg green parlando delle climate tech compannies, le nuove società che affrontano i problemi tecnologici legati alla crisi climatica:
Negli anni scorsi sul climate tech si sono concentrati 17 miliardi di dollari, prevalentemente negli Stati Uniti, nonostante una amministrazione attivamente ostile ai suoi principi. Certamente, una nuova amministrazione che vuole rafforzare il mercato del climate tech aumenterà l’interesse in questo settore, con la probabile nascita di nuove società e una maggiore raccolta di capitali.
Per le imprese italiane, come ha ribadito Romano Prodi nel corso dell’incontro che FUTURAnetwork ha dedicato al nuovo modello di sviluppo, nell’ambito dello stesso ASviS live, la sfida, di concerto con altre imprese europee, è “affrontare le trasformazioni tecnologiche necessarie per raggiungere un nuovo equilbrio”: evitare cioè che tutti i cambiamenti che verranno imposti dalla lotta alla crisi climatica avvengano in modo tale da impoverire il nostro apparato produttivo. Ma ce la possiamo fare, perché disponiamo di un sistema industriale flessibile e capace di adattarsi.
Il discorso è diverso se parliamo del cosiddetto “Sud del mondo”. Rispetto ai Paesi ricchi, quelli in via di sviluppo dovrebbero muoversi con rapidità anche maggiore, considerando lo stato delle loro reti elettriche, ma si trovano in situazione di grande difficoltà, anche perché il Covid li ha colpiti duramente e continua a colpirli, visto il ritardo delle campagne vaccinali.
Il segretario generale dell’Onu António Guterres ha da poco diffuso il suo rapporto annuale, in vista dell’High level political forum di luglio, sullo stato di attuazione dei 17 SDGs dell’Agenda 2030. Si tratta un quadro preoccupato per gli effetti della pandemia che si innestano su una situazione già insoddisfacente. L’aumento della povertà estrema (quella di chi guadagna meno di 1,90 dollari al giorno, che si voleva abolire entro il 2030 e che invece sta nuovamente crescendo), il diffondersi della malnutrizione e dell’insicurezza alimentare, l’accentuazione delle disuguaglianze e la compressione dei diritti umani hanno reso il mondo ancora più fragile.
Il rapporto segnala che ai quasi 80 milioni di rifugiati che a fine 2019 risultava che avevano dovuto abbandonare le loro case per guerre e violenze, si sono aggiunti altri milioni di migranti. Molte di queste migrazioni avvengono all’interno dello stesso Paese, come ci segnala un rapporto dell’Idmc che parla di 40 milioni di persone che hanno abbandonato le loro case senza però passare i confini.
È difficile immaginare che Paesi fortemente indeboliti possano affrontare la transizione ecologica. D’altra parte, ci è ben chiaro il prezzo che anche i Paesi ricchi saranno chiamati a pagare se non si riuscirà a contenere l’aumento delle temperature globali a 1,5 – 2 gradi al massimo. Si prevedono migrazioni di centinaia di milioni di persone da aree divenute inospitali, situazioni diffuse di insostenibilità sociale che potrebbero portare a un’epoca molto oscura, per non parlare degli effetti dei cambiamenti climatici che oltre i due gradi di aumento possiamo solo ipotizzare perché, come non si stancano di ripeterci gli esperti, non si tratta di fenomeni lineari: superati certi tipping points, punti di non ritorno, si potrebbero innescare conseguenze imprevedibili, dallo scioglimento del permafrost al rallentamento della Corrente del golfo.
L’unico modo per affrontare questi problemi nella loro globalità sarebbe una governance mondiale. Sappiamo bene che siamo ben lontani da questo obiettivo e che anzi il Consiglio di sicurezza dell’Onu nelle sue sedute non riesce a esprimersi in modo concorde su tante delle più gravi questioni mondiali (si veda la nuova guerra tra Israele e Hamas). Tuttavia, proprio sul clima, nella nuova era apertasi con l’avvento di Joe Biden alla presidenza degli Statui Uniti, si registra una maggiore convergenza anche tra Usa e Cina, nonostante i tanti altri temi di scontro. La prossima Cop 26 di Glasgow sarà l’occasione per verificare l’effettiva possibilità di combattere efficacemente la crisi climatica. Un’occasione irripetibile, forse l’ultima per evitare il disastro. In una intervista a Domani, l’economista Jeffrey Sachs, direttore del Center for Sustainable Development alla Columbia University e di Guterres, ha affermato: “Il vertice di Glasgow dovrà decretare la fine degli investimenti in tutti i combustibili fossili, e da quanto sento ci sono buone possibilità”. Forse il mondo sta davvero cambiando.