Sviluppo sostenibile
Lo sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.

L'Agenda 2030 dell'Onu per lo sviluppo sostenibile
Il 25 settembre 2015, le Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, un piano di azione globale per le persone, il Pianeta e la prosperità.

Goal e Target: obiettivi e traguardi per il 2030
Ecco l'elenco dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals - SDGs) e dei 169 Target che li sostanziano, approvati dalle Nazioni Unite per i prossimi 15 anni.

Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile
Nata il 3 febbraio del 2016 per far crescere la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e per mobilitare la società italiana, i soggetti economici e sociali e le istituzioni allo scopo di realizzare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile.

Progetti e iniziative per orientare verso uno sviluppo sostenibile

Contatti: Responsabile Rapporti con i media - Niccolò Gori Sassoli.
Scopri di più sull'ASviS per l'Agenda 2030

The Italian Alliance for Sustainable Development (ASviS), that brings together almost 300 member organizations among the civil society, aims to raise the awareness of the Italian society, economic stakeholders and institutions about the importance of the 2030 Agenda for Sustainable Development, and to mobilize them in order to pursue the Sustainable Development Goals (SDGs).
 

Editoriali

I (pochi) elementi di speranza in questo momento buio

Scoppia la guerra in Ucraina mentre i Nobel segnalano il grave peggioramento delle condizioni dell’infanzia africana. I valori dell’Agenda 2030 sembrano sbiadire e occorre ribadirli, partendo dall’integrazione europea e puntando sui giovani.

di Donato Speroni

L’attacco su larga scala della Russia all’Ucraina ci costringe a porci domande che non avremmo mai voluto affrontare. L’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS) nasce su un fondamento: unire i soggetti di questo Paese impegnati nella realizzazione degli Obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu. È un fondamento ancora valido?

Ricordiamo che l’Agenda è stata approvata da tutti i Paesi nel settembre 2015, dopo una elaborazione durata anni, con il coinvolgimento non solo dei governi ma anche della società civile del mondo, in un momento di grandi speranze sulle prospettive di collaborazione per sconfiggere i mali che affliggono l’umanità: povertà e fame, ma anche mancato rispetto dei diritti umani e dei criteri di uguaglianza; perdita della biodiversità, ma anche lotta alla crisi climatica.

Quasi a metà del percorso delineato dall’Agenda 2030, dobbiamo dire che le cose sono andate sempre peggio. Il quadriennio di Donald Trump dal 2017 al 2020 è stato segnato da un sistematico tentativo di smantellare la collaborazione multilaterale. La pandemia, evento del tutto imprevisto e inimmaginabile, ha segnato un generale arretramento nel perseguimento di tutti gli Obiettivi. Nessun conflitto si è risolto, dalla Libia alla Siria, anzi se ne sono aperti altri, mentre la vittoria dei talebani in Afghanistan e il dilagare dell’integralismo nel Sahel minacciano fortemente i diritti umani, a cominciare da quelli delle donne. E adesso l’attacco della Russia all’Ucraina, che potrebbe essere il preludio di altri atti di forza, come l’annessione di Taiwan da parte della Cina.

Nel suo editoriale su Avvenire, Mauro Magatti ci ricorda:

Da diversi anni papa Francesco ha usato l’espressione “guerra mondiale a pezzi” per dire che la prima fase della globalizzazione, quella iniziata con la caduta del muro di Berlino, con il disegno di un’unificazione planetaria nel segno della crescita del mercato, ha ormai da tempo dato vita a un quadro molto più controverso, dove si moltiplicano i fronti di tensione e conflitto. Il terrorismo internazionale, l’edificazione di muri, i conflitti armati, le guerre civili, le persecuzioni delle minoranze etniche e religiose sono le tante espressioni del disordine che regna a livello internazionale.

È in corso un processo di formazione di aree politiche – economiche – culturali omogenee, movimenti in profondità che muovono le grandi faglie del mondo e rischiano di generare terremoti, soprattutto nei punti di confine più deboli.

Nel moltiplicarsi di questi terreni di scontro, appare altresì evidente la fallacia del pensiero di chi ha immaginato la semplice eliminazione di ogni confine: aver cercato di negare la validità delle storie culturali ha finito per produrre, per reazione, l’affermazione violenta del confine. Come dominio, possesso, chiusura.

Come reagire a questa situazione nuova? Noi dobbiamo tenere alta la bandiera dell’Agenda 2030, ma non possiamo nasconderci che il quadro è completamente cambiato e dobbiamo domandarci da dove ripartire per raffermarne i valori. La prima risposta, ma purtroppo anche la più difficile, è il rafforzamento della governance internazionale. Solo una forte delega di poteri alle Nazioni unite potrebbe garantire dai rischi di guerra, ma questo obiettivo è più lontano che mai. Teniamoci stretti i faticosi progressi che l’Onu e le sue agenzie riescono a compiere in molti campi importanti, a cominciare dalla lotta al cambiamento climatico, ma non illudiamoci che l’Organizzazione nella sua struttura attuale, paralizzata dai diritti di veto nel Consiglio di sicurezza, possa porsi come garante della pace mondiale.

Nell’articolo di Magatti si riafferma la necessità del dialogo, ma il dialogo è certamente più facile se siamo certi della nostra identità, se l’Europa è in grado di presentarsi con una voce sola nell’arena mondiale. Quanto sta avvenendo ai confini dell’Unione dovrebbe stimolarci a progredire nell’integrazione europea. La Conferenza sul futuro dell’Europa, nata come volonteroso sforzo per coinvolgere i cittadini in una riflessione comune, dovrebbe davvero essere la base per nuovi impegni che uniscano i Ventisette, o almeno quanti tra loro sono disposti a procedere su questa strada.

Un altro elemento importante, nella costruzione di un futuro di pace, consiste nella valorizzazione del ruolo dei giovani, perché spetterà a loro affermare i valori di un mondo sostenibile.

Oggi se ne parla molto, e non solo perché il 2022 è l’anno europeo della gioventù.  Ci sono validi motivi per farlo. Innanzitutto, i giovani (dopo gli anziani nelle case di riposo) sono la categoria che ha pagato in modo più pesante il prezzo della pandemia: almeno due anni di scuola messi a repentaglio, con la didattica a distanza che causa un aggravamento delle diseguaglianze; una pesante rinuncia alla socialità per intere settimane o mesi; qualche ambiguità, con messaggi contraddittorii, sulle loro responsabilità nel diffondere il virus e minacciare i nonni.

Un’altra ragione di attenzione ai giovani è che sono pochi e saranno sempre meno. La questione della denatalità ha finalmente richiamato l’attenzione della politica, anche se sulle soluzioni c’è ancora molto fumo e poca sostanza. Infine, il tema che ci portiamo dietro da anni, della precarietà delle condizioni di lavoro che vengono offerte a chi si affaccia sul mercato, con “giovani adulti” fino a 35 anni e anche oltre costretti ad accettare impieghi senza sicurezza, spesso con paghe insufficienti per uscire dal livello di povertà, in condizioni nelle quali è impossibile pensare di crearsi una famiglia. E possiamo aggiungere gli squilibri tra Nord e Sud, i due milioni che non studiano e non lavorano, la condizione svantaggiata delle donne che si laureano prima e meglio dei colleghi maschi ma faticano a trovare comunque un impiego.

Alle tante denunce non corrispondono però altrettante ricette. Possiamo sperare che i giorni più bui della pandemia siano alle nostre spalle, grazie soprattutto ai vaccini, ma questo dovrebbe stimolarci a riflettere sull’adeguatezza delle nostre scuole. Le manifestazioni degli studenti hanno avuto anche aspetti poco condivisibili, ma denotano un malessere reale, tanto che in diversi istituti gli insegnanti hanno accettato di partecipare all’autogestione.

Anche il problema demografico richiede una gamma di soluzioni coraggiose. I provvedimenti per la famiglia sono certamente utili, ma difficilmente potranno portare a modifiche clamorose nel tasso di fecondità. L’apporto degli immigrati è indispensabile, ma la politica dovrebbe affrontare il tema con una visione di lungo termine, dicendo quanti immigrati siamo disposti ad accogliere (come richiesto anche da papa Francesco), come far sì che si integrino nella nostra società e quale profilo demografico dobbiamo aspettarci a seguito di queste scelte, con le relative conseguenze sul piano degli oneri previdenziali e degli effetti macroeconomici.

Un tema importante, del quale si discute con poca concretezza, è il rientro dei giovani italiani che sono all’estero. Un articolo di Attilio Di Battista e Marco Valenziano su la voce.info, ripreso da Gianluca Mercuri sulla Rassegna stampa del Corriere della sera, segnala sulla base di un sondaggio l’esistenza di “600 mila giovani italiani altamente istruiti che non vivono più in Italia ma vorrebbero tornarci, se solo certe condizioni glielo consentissero”.

Purtroppo l’aspirazione al rientro continua a essere frustrata da ostacoli oggettivi. Lo zoccolo duro dei nostalgici, stimato in 90 mila, dice di non riuscire a trovare un lavoro in Italia, o di trovarlo ma precario (14%) o poco stimolante (12%) o mal pagato (10%). Proprio l’aumento degli stipendi è indicato da due intervistati su tre come la priorità per rendere l’aspettativa del rientro più appetibile, seguita da una maggiore meritocrazia, dalla valorizzazione delle esperienze fatte all’estero e da una conciliazione meno complicata tra lavoro e famiglia.

I due studiosi ne ricavano la conclusione che «poche azioni ben mirate riporterebbero in Italia molti connazionali, con i conseguenti benefici di una minore emorragia demografica e di un arricchimento di esperienze diverse».

È possibile immaginare una politica che sia davvero più attenta alle nuove generazioni? La modifica costituzionale che questa settimana è comparsa in Gazzetta ufficiale  dovrebbe esserne la premessa, perché per la prima volta si parla dell’ “interesse delle future generazioni” introducendo così nella Carta il concetto di futuro e il principio della giustizia intergenerazionale. Finora l’importanza di questa innovazione è stata scarsamente recepita, ma certamente potrà avere un impatto sul modo di legiferare e l’ASviS non farà mancare il proprio contributo in questa correzione di rotta.

Di modifica della Costituzione, ma anche di molto altro, si è parlato nell’evento “Pandemia e generatività”, organizzato dall’ASviS e dalla Consulta scientifica del Cortile dei Gentili il 18 febbraio e dedicato all’analisi dei riflessi del Covid sulle nuove generazioni. In questo incontro, al quale ha fatto seguito anche una puntata di “Alta sostenibilità”, la rubrica dell’ASviS su Radio radicale, sono emerse diverse proposte concrete sul cambiamento della condizione giovanile, tutte legate al concetto di “generatività”, intesa come “apertura al nuovo, alla logica della scoperta, alla ricerca di base, perché non può esserci attenzione ai giovani senza disponibilità a innovare”. Nel complesso, il dialogo tra le generazioni, la scuola e la condizione femminile sembrano essere le leve su cui si deve maggiormente insistere per modificare le prospettive dei giovani.

Questo editoriale non sarebbe però completo se non parlasse anche di altri giovani più lontani da noi, perché il 20 febbraio La repubblica ha pubblicato l’appello sottoscritto da Giorgio Parisi e da altri 47 Premi Nobel a favore dei bambini africani.

L'Africa sta andando verso la sua prima recessione economica in 25 anni, come risultato della pandemia. Questo, insieme alla mancanza di accesso ai vaccini, significa che gli adulti perdono il lavoro e le famiglie sono spinte in una povertà ancora più grave, costringendo i bambini a sostituirsi come lavoratori sfruttati e schiavizzati. L'incommensurabile sofferenza dei nostri bambini è destinata ad aumentare ulteriormente, e non possiamo più permetterci di guardare dall'altra parte.

L’appello cita una serie di esperienze positive di protezione sociale messe in atto in questi mesi nei Paesi in via di sviluppo. Non ci vorrebbe molto per estenderle.  

Meno di 53 miliardi di dollari, spesa annualmente nei Paesi più poveri, estenderebbe la protezione sociale a tutti i bambini e alle donne incinte nei Paesi a basso reddito e ridurrebbe sostanzialmente la povertà estrema. La globalizzazione della protezione sociale è un'idea storica il cui tempo è arrivato.

Abbiamo cominciato questa rassegna settimanale parlando della guerra in Europa, la concludiamo parlando dei bambini africani. Due immagini di una grande sofferenza, di fronte alla quale le domande sono sempre le stesse. Che fare? Facciamo abbastanza? Ma anche: che cosa avremmo potuto fare in passato per evitare questa situazione? Per far sì che gli gli errori commessi non si ripetano, dobbiamo chiederci perché siamo sempre in ritardo nell’affrontare le sfide di questi anni difficili.

venerdì 25 febbraio 2022

Aderenti