Editoriali
Sappiamo di non sapere? I ritardi dell’istruzione e la disattenzione della politica
Invalsi: metà degli studenti non comprende quello che legge. I rapporti di Bankitalia, Istat e Cnel mettono in evidenza le carenze educative e le conseguenze sul futuro dei giovani, ma con scarsa eco nel dibattito nazionale.
di Flavio Natale
È arrivata l’estate, e con l’estate sono arrivati anche i temuti esami di maturità, le cui prove orali si stanno chiudendo proprio in questi giorni. Anche quest’anno, come da tradizione, gli esami hanno scatenato qualche polemica. La più recente ha riguardato la decisione del giudice del Tar di accogliere la richiesta della famiglia di una studentessa del liceo scientifico Leonardo da Vinci di Trento per far ammettere la ragazza all’esame di maturità con cinque insufficienze. La studentessa è stata comunque bocciata, avendo ottenuto risultati inadeguati nelle prove, ma questo non ha sedato le proteste del corpo docente.
Alessio Marinelli, docente di Matematica e fisica del liceo di Trento, ha scritto una lettera (firmata in poche ore da 110 professori) al ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara in risposta alla decisione del giudice.
Senza entrare nel dettaglio, ma riflettendo da docente, mi rende perplesso come, in un colpo solo, il decreto del Tar cancelli la credibilità di una scuola e dei suoi insegnanti radendo al suolo tutto il lavoro di valutazione e conoscenza di un intero anno scolastico. Vedo sempre più ragazzi rincorrere strade facili, aiutati dalle famiglie e dalla società a cercare escamotage per andare avanti, nella visione superficiale di un mondo nel quale devi dimostrare quanto sei furbo e non quanto vali.
Al testo ha risposto a stretto giro il ministro:
La lettera dei 110 professori esprime frustrazione e disagio verso una giurisprudenza che in alcuni casi delegittimerebbe l’autorevolezza stessa del docente.
Valditara ha aggiunto che, in una società dove la “deresponsabilizzazione della persona avanza a passi frenetici”, occorre creare un “senso di responsabilità”, stimolato dal “coraggio di fare ciò che nel caso della scuola di Trento i docenti hanno saputo fare: rifiutare la logica della promozione facile, rifiutare cioè la logica iniziata a suo tempo con il 6 politico. La responsabilità presuppone impegno, senza impegno la promozione non va concessa”.
Ma quale tipo di impegno viene richiesto ai nostri studenti? E all’impegno che giustamente è loro richiesto corrisponde un adeguato impegno delle istituzioni verso la scuola e le nuove generazioni?
È notizia recente la pubblicazione delle prove Invalsi 2023, nate per individuare il livello di competenze di studenti e studentesse su scala nazionale. Queste prove (criticate da una fetta di docenti per “l’eccessivo peso” che viene loro attribuito) hanno riguardato quest’anno 12mila scuole per un totale di un milione di allievi della scuola primaria, 570mila studenti della secondaria di primo grado e oltre un milione di studenti della scuola secondaria di secondo grado.
I dati sono abbastanza allarmanti. Secondo le statistiche, la metà degli studenti delle superiori non comprende che cosa legge, e soltanto il 50% raggiunge il livello base in matematica alla fine del liceo. In inglese, solo il 54% degli studenti (per quanto riguarda le prove di lettura) e il 41% (per quelle di ascolto) raggiunge il livello B2 – quello nel quale si acquisiscono le competenze linguistiche necessarie “per vivere e lavorare in modo indipendente in un Paese di lingua inglese”.
Le differenze si amplificano tra Nord e Sud. Mentre al Nord il 62% degli studenti raggiunge la sufficienza in italiano e matematica (con livelli anche del 66% nel Nord-Est), al Sud tre ragazzi su cinque si dimostrano insufficienti in italiano e due su tre in matematica, approfondendo il solco di un divario che comincia dal periodo scolare per proseguire nel mondo lavorativo.
Roberto Ricci, presidente dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (Invalsi), ha commentato:
È giusto dire che assistiamo a un effetto ‘long Covid’, è un'immagine appropriata, si fatica a tornare a livelli pre-Covid. Gli apprendimenti sono un continuum, se si inserisce una discontinuità questa finisce per avere un peso”.
Se è vero che il Covid-19 ha avuto un ruolo centrale nel peggioramento del livello medio dell’istruzione in Italia – incidendo sul livello di attenzione degli studenti in classe o sulla perdita di competenze specifiche – è altrettanto vero che l’Italia, nell’istruzione, non investe quanto dovrebbe e non è un caso che in queste settimane i rapporti annuali di alcune delle principali istituzioni del Paese hanno dedicato ai giovani, alla loro situazione e al ruolo della scuola una parte importante delle loro analisi.
Secondo il rapporto annuale dell’Istat il nostro Paese impegna nell’istruzione solo il 4,1% del Pil, a fronte del 4,5% della Germania, il 4,6% della Spagna, il 5,2% della Francia e una media Ue del 4,8%. Scarsi investimenti che si riversano, per esempio, anche sugli stipendi dei professori, problema su cui ha messo recentemente l’accento Valditara: “Dobbiamo cercare di trovare le risorse per valorizzare gli stipendi di tutti i docenti”, e “occorre trovare incentivi per le aree più disagiate o di frontiera affinché non ci sia la fuga di docenti”.
L’Istat ritiene particolarmente rilevanti due tipi di investimenti previsti dal Pnrr: il Piano asili nido e scuole dell’infanzia e i servizi di educazione e cura per la prima infanzia (4,6 miliardi di euro), e il Piano di messa in sicurezza e riqualificazione dell’edilizia scolastica (3,9 miliardi di euro).
Anche se l’Istituto rileva nel suo Rapporto una diminuzione dell’abbandono scolastico, la situazione è comunque preoccupante e tra le peggiori in Europa. Il tema è stato dibattuto durante l’evento nazionale organizzato dal Gruppo di lavoro dell’ASviS sul Goal 4 (“Istruzione di qualità”) dell’Agenda 2030, durante il Festival dello Sviluppo Sostenibile 2023, in cui è stata promossa la formazione di alleanze scolastiche a livello territoriale per contrastare la povertà educativa, anche attraverso l’iniziativa “Scuole e territorio: storie di connessioni per contrastare la povertà educativa”.
Il tasso di abbandono scolastico italiano, rileva sempre l’Istat, si attesta al 13,6% (nel 2012 era di oltre il 20%) per i maschi compresi tra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato gli studi prima di conseguire un diploma di scuola secondaria superiore, percentuale che scende al 9,1% per le ragazze (nel 2012 si arrivava al 14,3%). Questi valori restano comunque alti (rispettivamente +2,5 e +1,1 punti percentuali) rispetto a quelli Ue.
Vale la pena sottolineare che le regioni più virtuose nel contenere la dispersione scolastica implicita sono anche quelle nelle quali si riscontrano le maggiori percentuali di studenti eccellenti
sottolinea il Cnel nella sua relazione annuale sulle pubbliche amministrazioni presentata il 4 luglio nella sala plenaria della sua sede di Villa Lubin. Questo
a riprova che nella scuola equità e qualità non solo possono viaggiare insieme, ma sono probabilmente due facce della stessa medaglia.
Ma quando finisce la “scuola dell’obbligo”, cosa succede?
Il documento del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro dedica un intero capitolo a scuole e università, soffermandosi sull’investimento nell’istruzione terziaria, che reputa “molto basso” rispetto alla media europea e Ocse. La quota di Pil destinata in Italia all’istruzione terziaria è pari allo 0,9%, mentre per i Paesi europei la media è dell’1,24% e per quelli Ocse dell’1,43%.
Nell’anno della pandemia, avverte il Cnel, si è però anche registrato un picco di immatricolazioni alle lauree triennali e a ciclo unico e agli avvii di carriera alle lauree magistrali. “Sono soprattutto le donne a immatricolarsi, probabilmente perché l’università rappresenta una valida alternativa in un momento di forte contrazione del mercato del lavoro”, sottolinea il Consiglio.
Ma non basta. Secondo il rapporto Istat, “quasi un quinto dei giovani tra 15 e 29 anni in Italia non lavora e non studia (i cosiddetti Neet, ndr)”. Si tratta del dato più elevato tra i Paesi Ue, dopo la Romania. Il fenomeno dei Neet colpisce più le ragazze (20,5%) dei ragazzi (17,7%), ed è diffuso soprattutto nella fascia d’età tra 25 e 29 anni (dove riguarda un giovane su quattro), nel Mezzogiorno (27,9%) e tra gli stranieri residenti, che presentano un tasso del 28,8%, superiore di 11 punti percentuali a quello degli italiani 15-29enni. La forbice si allarga nel caso delle ragazze: 37,9% di giovani straniere contro il 18,5% di ragazze italiane.
Sempre per l’Istat la fascia d’età compresa tra 18 e 34 anni è quella più a rischio di tutte: nel 2022, il 47,7% dei giovani mostra “un segnale di deprivazione” in uno dei domini principali del benessere: istruzione e lavoro, coesione sociale, salute, benessere soggettivo e territorio – in cui rientrano la soddisfazione per il contesto paesaggistico e ambientale in cui si vive e la difficoltà a raggiungere i servizi essenziali. Di questa fetta di giovani il 15,5% (pari a 1,6 milioni) sono “multi-deprivati” – mostrano cioè sintomi di deprivazione in almeno due domini. Questi livelli sono particolarmente elevati nella fascia di età compresa tra 25 e 34 anni, la più vulnerabile in assoluto.
In Italia inoltre la “trappola della povertà”, ovvero quel meccanismo per cui se si nasce in una famiglia in condizioni economiche disagiate si rischia di versare da adulti in condizioni simili, è più diffusa che in altri Paesi europei. Quasi un terzo degli adulti (25-49 anni) attualmente a rischio povertà proviene da una storia familiare di condizioni finanziarie critiche.
Dati commentati anche da Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’ASviS, che nel corso della puntata di venerdì 14 luglio della rubrica Scegliere il futuro ha analizzato i risultati emersi dal Rapporto, definendoli “estremamente preoccupanti”.
“Questi risultati mostrano non solo la fragilità delle giovani generazioni in Italia, ma anche il peggioramento rispetto agli anni pre-pandemici”. Il direttore scientifico ha sottolineato anche che “le politiche non sono in grado di tirar fuori quella capacità di essere resilienti di fronte alle difficoltà”, mancanza evidenziata dalla “trasmissione intergenerazionale della povertà molto elevata” e dall’elevata quota di Neet. Giovannini lamenta infine la “disattenzione della politica attuale” su queste tematiche, politica che invece “cerca di affrontare altre tematiche, pure importanti, ma che non si dedica come dovrebbe al futuro e al presente delle giovani generazioni da cui dipende il futuro di noi tutti”.
La precarietà del lavoro è un problema che riguarda tutte le fasce d’età, ma colpisce in particolare i giovani. A sottolinearlo è il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nelle sue “Considerazioni finali” del 31 maggio, dove sottolinea anche l’importanza dell’istituzione del “salario minimo”:
Troppi, non solo tra i giovani, non hanno un’occupazione regolare o, pur avendola, non si vedono riconosciute condizioni contrattuali adeguate; come negli altri principali Paesi, l’introduzione di un salario minimo, definito con il necessario equilibrio, può rispondere a non trascurabili esigenze di giustizia sociale.
Spesso, continua il governatore, i giovani entrano in una condizione di precarietà “molto prolungata”: “la quota di giovani che dopo cinque anni ancora si trova in condizioni di impiego a tempo determinato resta prossima al 20%”.
Le competenze dei giovani risultano “spesso insoddisfacenti”, ma anche le imprese non sempre fanno il possibile per valorizzarle. In Italia, dice il governatore,
non mancano giovani con elevate qualità professionali e imprese dinamiche e di successo; ma è ancora troppo bassa la quota di quelle che puntano con decisione sulla valorizzazione del capitale umano e delle capacità manageriali, fondamentali per trarre beneficio dalle nuove tecnologie e accrescere la capacità competitiva dei prodotti e servizi offerti sui mercati nazionali e globali.
Competenze tecnologiche che possono essere coltivate già in età scolare, come dimostrano le esperienze di innovazione scolastica raccolte nel blog Next Generation Schools, promosso dal Gruppo di lavoro sul Goal 4 dell’ASviS e attualmente attivo sul sito di dibattito FUTURAnetwork.
Dunque, se per l’Istat i giovani sono una “risorsa sempre meno disponibile” su cui bisogna investire, è arrivato il momento in cui questo bisogno sia concretizzato. Anche perché la posta in gioco, come ricorda Ignazio Visco, è molto alta:
Come scrive Yuval Noah Harari, ci contraddistingue la capacità “non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente”. Questa capacità di immaginare il futuro sarà cruciale. […] Spetta proprio ai più giovani, meno condizionati dal passato, immaginare quel mondo, individuarne le opportunità. Andranno ascoltati, aiutati dalle altre generazioni a formarsi, senza vincoli, per tradurre in interventi realistici gli schemi che sapranno elaborare per un mondo futuro, non più povero, ma più sicuro e più giusto.
Fonte copertina: Siora Photography, da unsplash.com