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FOCUS. Il destino irreversibile dei ghiacci polari
L’espansione invernale del ghiaccio antartico è ai minimi storici e dal 2030 il Mar Glaciale artico potrebbe rimanere senza ghiaccio durante l’estate. Le previsioni per i Poli non sono incoraggianti, con conseguenze per il Pianeta e la biodiversità. [Da FUTURAnetwork.eu] 6/10/23
È quasi finito l’inverno in Antartide, la stagione in cui il ghiaccio marino raggiunge la sua massima estensione. Un’estensione ai minimi storici quest’anno: 16,96 milioni di chilometri quadrati registrati il 10 settembre del 2023, un milione di chilometri quadrati in meno rispetto al precedente record stabilito nel 1986.
“Mentre le condizioni meteo, come i venti e le temperature, influenzano le variazioni giornaliere dell’estensione dei ghiacci, il trend negativo sul lungo periodo è argomento di discussione” riporta il National snow and ice data center. L’estensione del ghiaccio marino antartico è cresciuta leggermente fino al 2016, quando ha iniziato a ridursi, probabilmente a causa anche del riscaldamento degli oceani.
Fonte: National snow and ice data center
Le conseguenze del cambiamento climatico, già particolarmente evidenti nell’Artide, pongono prospettive drammatiche: secondo il Rapporto sullo stato della criosfera 2022 pubblicato dall’International cryosphere climate initiative, gran parte dei ghiacciai scomparirà causando un innalzamento del livello del mare di due metri entro il 2100, fino a raggiungere i cinque metri nel 2150.
Quale futuro per i ghiacci polari? E quali le conseguenze della loro fusione, oltre all’innalzamento del livello del mare?
L’Antartide
Come sottolinea il National snow and ice data center, i dati rilevati a settembre del 2023 sollevano forti preoccupazioni sul futuro dell’Antartide. Il ghiaccio marino presente in Antartide è fondamentale per la regolazione della temperatura del Pianeta poiché riflette la luce solare e raffredda le acque oceaniche. E nel caso continuasse a diminuire, molte aree costiere sarebbero esposte alle onde, al clima e all’erosione del mare.
A preoccupare è anche la fusione dei ghiacciai continentali, in particolare del ghiacciaio Thwaites, soprannominato il “ghiacciaio del giorno del giudizio”. Con i suoi 120 chilometri di costa, è il più grande sul Pianeta e ogni anno riversa 50 miliardi di tonnellate di ghiaccio nell’oceano. Il suo collasso potrebbe provocare un innalzamento del livello del mare di 60 centimetri, ma è difficile monitorare lo stato e la velocità di fusione del ghiacciaio e prevedere cosa potrà accadere.
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Le conseguenze sulla biodiversità sono già drammatiche. A fine del 2022, la banchisa del mare di Bellingshausen, al largo della costa occidentale della Penisola Antartica, si è frammentata e fusa in anticipo, provocando la morte di oltre 9mila piccoli di pinguini imperatori che non avevano ancora sviluppato le piume impermeabili necessarie per nuotare. Ai tassi attuali, a causa della mancanza di ghiaccio marino il 90% delle colonie di pinguini imperatori potrebbe essere quasi estinte entro la fine del secolo, denuncia lo studio, pubblicato ad agosto del 2023 su Nature & communications.
Anche la vegetazione risente dell’aumento delle temperature e della fusione del ghiaccio. Tra il 2009 e il 2018 due specie native in particolare, Deschampsia antarctica e Colobanthus quitensis, si sono diffuse rispettivamente cinque e dieci volte più velocemente rispetto al periodo 1960-2009. “I nostri risultati supportano l’ipotesi che il riscaldamento futuro innescherà cambiamenti significativi nel fragile sistema antartico” si legge nello studio pubblicato nel 2022 su Current biology.
L’Artide
Al circolo polare artico la situazione è ancora più preoccupante. Secondo gli studi quest’area si sta scaldando fino a quattro volte più velocemente rispetto alla media del Pianeta. Questo significa che l’Artico è in media tre gradi più caldo rispetto al 1980. Il fenomeno è noto come “amplificazione artica”.
Con la fusione del ghiaccio marino si riduce la possibilità di riflette i raggi solari e aumenta il calore assorbito dall’oceano, accelerando l’innalzamento della temperatura. La perdita completa di questa superficie riflettente potrebbe avere un effetto sul riscaldamento globale pari a 25 anni di emissioni di combustibili fossili, considerati i livelli di emissioni attuali.
A settembre del 2023, anche nell’Artico si è registrato un dato preoccupante: secondo il National snow and ice center data, il 19 settembre 2023 la calotta artica ha raggiunto i 4,23 milioni di chilometri quadrati, la sesta estensione più bassa in 45 anni di rilevazioni satellitari. Dal 1979 ogni anno si sono fusi circa 77.800 chilometri quadrati di ghiaccio, come se scomparisse annualmente un’area grande quanto la Repubblica ceca.
In uno scenario di aumento moderato o elevato delle emissioni, il Mar Glaciale artico potrebbe rimanere senza ghiaccio durante l’estate già a partire dal 2030, due decenni prima rispetto a quanto precedentemente previsto. Anche se gli Stati dovessero azzerare le emissioni entro il 2070 il risultato non varierebbe significativamente, denuncia uno studio pubblicato a giugno del 2023 su Nature communications.
Il ghiaccio artico sta anche “ringiovanendo”. La National oceanic and atmospheric administration ha osservato come il ghiaccio più vecchio, con un’età maggiore di quattro anni, stia diminuendo rapidamente. Nel 1989 il 33% del ghiaccio era vecchio, percentuale scesa all’1,2% nel 2019. Il ghiaccio più giovane è meno spesso e resiliente ai cambiamenti atmosferici e alle forze oceaniche, rendendo la calotta polare maggiormente vulnerabile alle conseguenze dei cambiamenti climatici.
La fusione dei ghiacci comporterà l’apertura di nuove rotte commerciali e la possibilità di sfruttamento delle risorse sotterranee, compromettendo gli equilibri dell’area. L’Artide è infatti un mare ghiacciato suddiviso tra otto Paesi (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Svezia e Stati uniti), ma l’accesso e il controllo delle rotte interessa altri Stati, prima fra tutti alla Cina.
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Anche nell’Artide gli impatti della scomparsa dei ghiacciai sono già evidenti sulla biodiversità. Gli orsi polari, ad esempio, stanno diminuendo e secondo alcuni esperti potrebbero quasi estinguersi entro la fine del secolo. La mancanza di ghiaccio rende più difficile l’approvvigionamento di cibo, costringendo gli animali a spostarsi per distanze maggiori.
La scomparsa dei ghiacci e il disgelo del permafrost stanno favorendo la proliferazione dei lombrichi. La loro presenza provocherà una maggiore fertilizzazione del terreno, permettendo ad alcune piante di diffondersi, a discapito di muschi e licheni tipici della tundra. Questi cambiamenti contribuiranno a ridurre la superficie coperta da neve, limitando la possibilità di riflettere la luce solare.
Quali soluzioni?
Le prospettive per i ghiacci polari non sono incoraggianti, anche se gli Stati dovessero ridurre le emissioni. Ci sono però alcune iniziative che operano per tutelare questi ecosistemi fragili, in particolare l’Artide. Un esempio è la 90 North foundation, un’organizzazione attiva per incentivare la cooperazione internazionale nella protezione dell’Oceano artico e vietare attività come la pesca e l’estrazione mineraria. Ad oggi, la maggior parte delle aree marine protette è all’interno delle Zone economiche esclusive dei singoli Paesi, ma la situazione potrebbe cambiare dopo l’adozione a giugno del 2023 del Trattato sull’alto mare delle Nazioni unite e l’impegno di rendere il 30% delle acque internazionali zona protetta entro il 2030.
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Sono state ideate anche soluzioni più bizzarre. Artic ice project, un’organizzazione statunitense non profit, ha proposto di ricoprire alcune aree dell’Artide particolarmente vulnerabili con un sottile strato di polvere di vetro che rifletta i raggi solari. Alcuni esperimenti condotti in alcuni laghi del Canada e degli Stati uniti hanno dato risultati promettenti. Ci sono, tuttavia, perplessità sulle possibili interferenze di queste tecniche con i delicati equilibri dell’ecosistema.
Un’altra idea, avanzata nel 2018 dall’Arctic centre dell’Università della Lapponia, prevedeva la costruzione di una barriera che bloccasse le correnti marine calde che contribuiscono alla fusione dal basso dei ghiacciai Thwaites in Antartide e Jakobshavn in Groenlandia. E ancora, l’Harvard University’s stratospheric controlled perturbation experiment (SCoPEx) che ha ipotizzato di utilizzare tecniche di geoingegneria solare per bloccare i raggi solari, rilasciando carbonato di calcio nella stratosfera, l’area dell’atmosfera posta fra i 10-20 chilometri e i 50 chilometri di quota.
di Maddalena Binda
Fonte dell'immagine di copertina: Xavier Balderas Cejudo/unsplash