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Rese superiori e fino al 36,5% di tossine in meno: il punto sulle coltivazioni Gm
Uno studio condotto da quattro scienziati italiani rivela la migliore performance del mais geneticamente modificato rispetto alle coltivazioni tradizionali in termini agronomici, ambientali e tossicologici.
Nonostante l’estesa coltivazione di piante geneticamente modificate nel mondo, i rischi e i benefici che ne deriverebbero per l’ambiente e per l’uomo sono ancora dibattuti. Ma secondo uno studio condotto da quattro scienziati della Scuola universitaria superiore Sant’Anna e dell’Università di Pisa, il mais geneticamente modificato (Gm) presenterebbe risultati generalmente migliori delle coltivazioni tradizionali in termini di resa dei raccolti, quantità di tossine e velocità di decomposizione della biomassa.
Pubblicata il 15 febbraio sulla rivista Nature, l’indagine, dal titolo “Impact of genetically engineered maize on agronomic, environmental and toxicological traits: a meta-analysis of 21 years of field data”, interviene nel dibattito sugli Ogm interpretando i dati provenienti da diverse analisi condotte nel mondo dal 1996 al 2016.
Dai risultati emerge che negli ultimi 21 anni le rese dei raccolti Gm sono state superiori fino al 24,5% rispetto a quelle delle coltivazioni non Gm, con quantità di micotossine inferiori fino al 36,5%. Quest’ultimo dato si spiega alla luce del fatto che molte varietà di mais sono modificate attraverso ingegneria genetica al fine di determinarne la resistenza a insetti quali i coleotteri e i lepidotteri che, danneggiando la pianta, facilitano lo sviluppo di micotossine, causando rischi per la salute e danni economici per gli agricoltori. La velocità di decomposizione della biomassa, inoltre, è generalmente più alta nelle varietà Gm, determinando una riduzione dei tempi e dei costi di produzione dei carburanti a base vegetale.
Raggiunge conclusioni simili uno studio pubblicato nel 2014 sulla rivista Plos One, che in più riscontra, nelle coltivazioni Gm, una riduzione nell’utilizzo di pesticidi del 37% e un aumento del ricavo degli agricoltori fino al 68%.
Si tratta di risultati dalle implicazioni importanti, se si considera che dalla loro prima commercializzazione nel 1996, le coltivazioni Gm sono passate dall’occupare 1,7 milioni di ettari a livello globale a 185,1 milioni di ettari nel 2016: circa il 12% dei terreni coltivati nel mondo, il 54% dei quali si trovano in Paesi in via di sviluppo.
Proprio per i Paesi in via di sviluppo, gli Ogm e le nuove tecnologie in ambito agricolo possono rappresentare una risposta al problema dell’insicurezza alimentare, contribuendo all’incremento dell’efficienza in agricoltura e a una migliore gestione dei fattori produttivi e della biodiversità.
Ma l’argomento rimane controverso, e si lega al tema dell’incertezza e del rischio nella scienza. Per molti, è “meglio prevenire che curare”. Il quadro mondiale non è omogeneo: sono 38 i Paesi nel mondo, di cui 19 in Europa, che hanno proibito le coltivazioni Gm, pur consentendo l’importazione di mangimi consistenti in (o derivanti da) piante geneticamente modificate.
- Leggi lo studio del 2017 “Impact of genetically engineered maize on agronomic, environmental and toxicological traits: a meta-analysis of 21 years of field data”
- Leggi lo studio del 2014 “A meta-analysis of the impacts of genetically modified crops”
di Lucilla Persichetti