Approfondimenti
I diritti dello straniero migrante “lavoratore e vittima di reato”
di Giuditta Occhiocupo*, Ricercatrice senior INAPP (Istituto Nazionale per l'Analisi delle Politiche Pubbliche)
Il libro di A. Rizzo affronta il fenomeno dello sfruttamento lavorativo. Dall’analisi delle fonti giuridiche emerge che la persona in condizione di fragilità è sempre oggetto di tutela.
13 novembre 2024
Il lavoro di A. Rizzo (2024) Il contrasto allo sfruttamento lavorativo dei migranti nel diritto dell’Unione europea e la sua attuazione nel diritto italiano, Cacucci editore, Bari (consultabile anche presso Biblioteca INAPP https://inapp.infoteca.it/?ids=25390), affronta il fenomeno dello sfruttamento lavorativo di persone in condizione migratoria, cercando di fare emergere gli elementi di interdisciplinarietà tra diritto dell’immigrazione, diritto penale e diritto del lavoro, tenendo anche presente lo sviluppo tecnologico e la correlata questione dei “nuovi lavori”. Filo conduttore delle analisi delle principali fonti giuridiche e giurisprudenziali internazionali, europee e nazionali, è la tutela della persona in condizione di fragilità.
Schiavitù e sfruttamento: dalla dimensione internazionale a quella sovranazionale
L’autore per arrivare all’analisi dello sfruttamento lavorativo dei migranti parte dall’analisi del crimine di schiavitù, riconducibile nelle sue diverse connotazioni al concetto di lesione della libertà individuale in termini generali o per finalità specifiche e che, a livello internazionale, è stato riconosciuto come violazione di regole di c.d. “diritto cogente”, inteso come insieme di obblighi/divieti di carattere imperativo imposti a tutti gli Stati e soggetti di diritto internazionale, inclusi gli individui.
Da tale concetto l’autore fa derivare infatti quelli dello sfruttamento lavorativo, del lavoro forzato e dell’inserimento socio-lavorativo delle persone “straniere” nel contesto della gestione dei flussi migratori, facendo riferimento ad un duplice ordine di impegni internazionalmente rilevanti. L’uno, si collega al generale divieto di comportamenti discriminatori da parte dello Stato, l’altro, attiene all’impegno degli Stati di adottare azioni “positive” sul piano legislativo e amministrativo finalizzate alla concreta realizzazione del diritto al lavoro spettante a ciascun individuo, a prescindere dalla provenienza nazionale di quest’ultimo.
A supporto di tale quadro generale vengono citate numerose fonti di diritto internazionale (es. Convenzione Oil n.143/1975 sulle migrazioni in condizioni abusive e sulla promozione della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti) e recenti decisioni della Corte di Strasburgo in tema di tratta e di sfruttamento di cittadini non nazionali.
Dall’analisi del contesto giuridico internazionale, l’autore, nel secondo capitolo del libro, è passato al diritto dell’Unione europea, cercando di fare luce sulle competenze legislative sovranazionali in merito all’inserimento socio-lavorativo degli individui stranieri, regolari e irregolari e sull’individuazione degli elementi di “inter-settorialità” relativi alla cooperazione giudiziaria, alle politiche migratorie e a quelle in ambito socio-lavorativo. Nello sforzo di ricostruzione del quadro complessivo di riferimento, un’attenzione particolare è stata dedicata alla categorizzazione che l’Ue ha compiuto tra migranti “qualificati” (rifugiati, richiedenti asilo o protezione internazionale, destinatari della protezione c.d. sussidiaria e sfollati) e migranti in senso esteso.
In merito è stato rilevato come la complessa disciplina relativa allo sfruttamento lavorativo dei migranti, intesi come vittime di comportamenti vietati quali lo sfruttamento lavorativo o la tratta, venga regolamentata dall’UE soprattutto attraverso direttive, ovvero atti normativi destinati ad esplicare effetti giuridici precettivi nei confronti degli Stati membri.
Interazioni tra protezione dei lavoratori migranti e tutela dei diritti fondamentali
La lotta allo sfruttamento di lavoratori migranti deve essere letta anche alla luce dell’interazione tra la Carta dei diritti dell’Unione europea e i principi delineati nella Cedu (Convenzione europea dei diritti dell'uomo, trattato internazionale istituito dal Consiglio d'Europa nel 1950 per contribuire a proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali delle persone). In particolare, dalla lettura congiunta delle norme relative al divieto di schiavitù e di altre forme di sfruttamento correlate al diritto di protezione che ogni individuo può pretendere dallo Stato, emerge l’individuazione di un duplice obiettivo, alla luce di condizioni individuali di fragilità e nelle quali la persona risulta più facilmente esposta a situazioni che la qualifichino come vittima di comportamenti abusivi, anche da parte di un datore di lavoro.
D’altro canto, lo stesso tema dello sfruttamento lavorativo dei migranti, con particolare riferimento a quelli in condizione di irregolarità nell’Unione, pur essendo affrontato in una disciplina specifica, condivide numerosi aspetti con altre voci criminogene, come la tratta. Su tali profili la Corte europea dei diritti dell’uomo è stata chiara nell’indicare come profili riconducibili all’una (tratta) o all’altra fattispecie (sfruttamento lavorativo) siano facilmente sovrapponibili, restando centrale per lo Stato il dovere di porre in essere legislazioni in grado di offrire un quadro formale sufficientemente completo volto al perseguimento di qualsiasi condizione che risalga, direttamente o meno, al divieto generale di schiavitù o servitù, stabilito dall’art. 4 della Cedu.
I “nuovi lavori” e la condizione giuridica dei lavoratori stranieri in condizioni di irregolarità
Il volume esamina anche come la prassi e la giurisprudenza della stessa Unione europea, con alcuni recenti e non secondari esempi anche di alcune giurisprudenze nazionali (italiana e tedesca) abbiano offerto rinnovato impulso alla tutela antidiscriminatoria, anche con riguardo agli specifici profili di natura giuslavoristica. Tali profili rappresentano infatti un oggetto d’analisi utile anche per comprendere le evoluzioni della prassi in materia, in un’ottica di complessiva accentuazione dell’approccio “informale” ai rapporti di lavoro (soprattutto alla luce delle nuove tecnologie e della prassi della c.d. “gig-economy”, in cui la stessa giurisprudenza nazionale ha posto in evidenza l’emersione di fenomeni di c.d. “caporalato digitale”, stigmatizzati penalmente).
Emerge infatti la tendenza sempre più consolidata anche nella giurisprudenza dell’Unione, a considerare i rapporti lavorativi come ambito nel quale la posizione del lavoratore merita di ricevere maggiori tutele in relazione sia all’evoluzione tecnologica sia all’espansione progressiva dei fenomeni di sfruttamento lavorativo (essendo anzi quest’ultima spesso direttamente collegata alla prima). Tale situazione interesserebbe in modo particolare, statistiche alla mano, i lavoratori non nazionali, in condizione di irregolarità, in quanto categoria generalissima nei confronti della quale verrebbero “sperimentate” nuove modalità tese ad eludere, se non a violare radicalmente, i parametri risalenti al principio egualitario in senso sostanziale e il divieto di discriminazioni. A parere dell’autore si tratterebbe di comportamenti che, anche alla luce del collegamento tra la questione dei “nuovi lavori” e le modalità di violazione del divieto di intermediazione illecita al e nel lavoro potrebbero facilmente configurare lesioni di beni primari della persona mettendo in luce la fragilità “in certi casi estrema” di alcune figure giuridiche individuali, come quella del lavoratore migrante.
*Le opinioni espresse impegnano la responsabilità dell’autrice
e non riflettono le posizioni dell’Ente di appartenenza
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