Approfondimenti
Il ruolo cruciale delle comunità locali nella transizione sostenibile
di Giovanni Forte, già Dirigente nelle amministrazioni locali
Per implementare gli Obiettivi dell'Agenda 2030 i comuni italiani devono necessariamente associarsi tra loro, per generare le economie di scala grazie alle quali investire in nuove funzioni e servizi.
3 aprile 2025
Il sistema economico-sociale di matrice occidentale di cui facciamo parte disattende ormai da tempo i principi di giustizia ed equità. Il cambiamento climatico in atto ha messo in evidenza le criticità di un modello di sviluppo che infrange gli equilibri ecologici, produce diseguaglianze sempre più accentuate e contribuisce a generare conflitti armati, spesso legati all’accaparramento di risorse naturali, che da soli sono causa di circa il 50% dei flussi migratori cui stiamo assistendo nel mondo. L’ambiente naturale, l’economia globale e la convivenza umana mostrano la corda tutti allo stesso tempo, perché le tre dimensioni sono interconnesse e reciprocamente influenti; le crisi si manifestano con maggiore intensità nel Sud del mondo, dove lo sfruttamento del lavoro e della natura trova meno ostacoli e i movimenti di resistenza che sorgono sono spesso eliminati o repressi anche in forme violente.
In questo quadro generale, le Nazioni Unite hanno ridefinito e adottato nel 2015 gli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (sustainable development goals, in sigla SDGs, riuniti e diffusi come Agenda 2030), traguardandoli all’anno 2030. L’Agenda 2030 porta con sé una grande novità: per la prima volta viene espresso un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, non solo sul piano dello sfruttamento delle risorse naturali, ma anche su quello economico e sociale, superando definitivamente l’idea che la sostenibilità sia unicamente una questione ambientale. Oltre a perseguire priorità assolute come pace, eliminazione della povertà, salute ed educazione per tutti, sicurezza alimentare, qualità dell’ambiente, l’Agenda persegue anche la riduzione delle diseguaglianze, il rispetto dei diritti, l’efficienza delle istituzioni, puntando ad ottenere società più aperte e pacifiche. Un pacchetto di obiettivi che viene definito non a torto “il futuro che vorremmo”.
Le principali potenze e gruppi di interesse attivi sulla scena internazionale non sono però oggi capaci di esprimere un’azione efficace per far fronte alle gravi problematiche attuali, operando al contrario su logiche nazionaliste e belliciste, in un’ottica di breve periodo[1], che aggrava anziché affrontare i fattori di crisi. In questo contesto, diviene fondamentale l’azione a livello locale. L’attuazione dell’Agenda 2030 richiede infatti un approccio innovativo di governance multi-livello, basata sull’allineamento verticale di responsabilità e funzioni tra il livello internazionale, nazionale, regionale, locale e sull’interazione orizzontale tra attori pubblici, privati e attori sociali in ciascun contesto locale. Il ruolo centrale degli enti locali per l’implementazione degli SDGs è ampiamente riconosciuto dalla letteratura e dalle Nazioni Unite, non solo perché le città ospitano la maggior parte della popolazione mondiale e sono responsabili della maggior parte dei consumi, ma anche in virtù dei processi di decentralizzazione delle funzioni che sono attualmente in atto in molti Paesi. Oltre il 65% degli obiettivi di sviluppo sostenibile coinvolge direttamente le comunità locali, perché è nei territori che le azioni necessarie debbono essere dispiegate.
La centralità del livello locale in assenza di un assetto organico delle autonomie locali
La crisi sistemica, lo sviluppo tecnologico e i mutamenti sociali in corso in Italia e in larga parte del mondo occidentale stanno determinando processi destinati a modificare sostanzialmente le società in cui viviamo. Tra di essi è possibile evidenziare, come maggiormente significativi:
- una complessa transizione ecologica ed energetica;
- la necessità di adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici;
- l’invecchiamento della popolazione, a seguito del progressivo accrescersi del numero di anziani, un buon numero dei quali senza figli o con figli anziani;
- il rapido incremento di residenti stranieri immigrati, regolari e irregolari, processo inarrestabile ma anche necessario, per il mantenimento dell’equilibrio tra popolazione attiva e non;
- la crescita progressiva delle diseguaglianze economiche e degli effetti disgregativi del contratto sociale che ad essa conseguono;
- l’allontanamento delle persone, e dei giovani in particolare, dall’agone politico e dalla partecipazione civile;
- il passaggio ad una società pienamente digitale, con progressivo impiego di sistemi di intelligenza artificiale.
L’incidenza di questi fattori sulle comunità locali richiedono un profondo rinnovamento delle amministrazioni comunali, per offrire nuove forme di servizio e di supporto ai cittadini in una complessa fase di transizione. Per la futura qualità della vita e della convivenza civile nelle comunità, occorre che le amministrazioni locali provvedano a:
- incentivare la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali che li riguardano;
- promuovere il risparmio e l’efficienza idrica ed energetica, favorendo la nascita di comunità energetiche rinnovabili[2];
- favorire esperienze e innovazioni basate sull’economia circolare;
- arrestare la cementificazione dei suoli e ripristinare aree a verde pubblico nelle zone degradate;
- favorire un’agricoltura sostenibile orientata a soddisfare il fabbisogno locale;
- introdurre in tutte le scuole l’educazione alla Cittadinanza globale e potenziare gli interventi per il diritto allo studio, per ‘non lasciare nessuno indietro’;
- allestire spazi di allenamento civico e progettazione per adolescenti e giovani in forma di autogestione;
- predisporre sistemi organici per l’accoglienza e l’integrazione degli stranieri;
- realizzare e promuovere attività destinate alla prevenzione e promozione della salute di una popolazione sempre più anziana.
L’evoluzione necessaria, che implica l’allestimento di nuovi servizi e funzioni, trova però un limite strutturale nell’assetto incompleto e inefficiente del sistema delle autonomie locali. Con la L. 56/2014 (cd. Legge Del Rio, dal nome del ministro proponente) le province nelle regioni a statuto ordinario sono state trasformate in organi elettivi di secondo livello[3], a cui avrebbe dovuto far seguito la loro estinzione mediante legge di modifica costituzionale, con l’intento di sostituirle da un lato con aggregazioni intercomunali sub-provinciali - in pratica le unioni di Comuni di cui all’art. 33 del Testo unico degli Enti locali - e dall’altro da enti sub-regionali più grandi delle attuali province. Due forme di aggregazione coerenti e funzionali ai diversi fenomeni da governare, che si riverberano sovente su scale sovra comunali (ma sub-provinciali) o interprovinciali (ma sub-regionali). La riforma è stata bocciata dall’esito del referendum costituzionale del novembre 2016 e, successivamente, è venuto meno anche l’obbligo associativo per i piccoli comuni, la cui attuazione è stata differita annualmente per quasi un decennio[4]. Manca ancora oggi un quadro organico e coerente delle istituzioni locali, di fatto ferme in mezzo al guado di una riforma incompiuta.
Le difficoltà dei Comuni piccoli e medi e l’unione di Comuni come soluzione
Un Comune grande o medio-grande, in cui operano centinaia di dipendenti, ha la possibilità di adattare la propria organizzazione per questa nuova fase storica, grazie all’entità delle risorse umane e finanziarie disponibili. È quello che sta avvenendo in diverse grandi città europee ed extraeuropee, che hanno risorse e competenze sufficienti per intraprendere la strada verso un’effettiva sostenibilità ambientale, economica e sociale; l’esempio più avanzato in questa direzione è il network delle fairless cities (città senza paura) che vede Barcellona come capofila. Lo stesso non può dirsi per i comuni piccoli e medio-piccoli, che costituiscono però la stragrande maggioranza del sistema comunale italiano: dei 7904 Comuni esistenti oggi - con una media di 7600 abitanti ciascuno, a fronte di una superficie territoriale media non superiore a 38 chilometri quadrati - quasi un quarto non supera i 1000 abitanti, il 70 per cento ha una popolazione inferiore a 5000 abitanti. Se confrontiamo il numero di Comuni con quello dei Sistemi locali del lavoro (Sll) o con i Sistemi urbani territoriali, cioè gli ambiti territoriali entro i quali avviene la maggior parte degli spostamenti giornalieri di coloro che vi risiedono tra casa, lavoro e per altre attività complementari, il sottodimensionamento appare evidente.[5]
La ridotta dimensione comunale impedisce di affrontare alla giusta scala territoriale alcuni aspetti della pianificazione urbanistica, le infrastrutture di mobilità e comunicazione, le politiche fiscali, l’offerta di servizi ad alta specializzazione, né consente di disporre di uffici e servizi interni adeguati alle necessità di una società complessa.
Per i piccoli e medi Comuni, la via obbligata per essere protagonisti in questa fase di cambiamento è l’integrazione operativa nell’ambito di un sistema amministrativo associato con i Comuni contermini. In questo modo, un Comune mantiene la propria identità e la conduzione diretta delle funzioni che possono essere svolte in maniera razionale ed efficiente a livello di istituzione singola, potendo però avvalersi di tutta la compagine degli enti locali associati per dar vita a quei servizi che da solo non potrebbe in alcun modo realizzare. Nella sostanza, i Comuni operanti su un contesto relativamente omogeneo devono sviluppare una sorta di integrazione orizzontale di scala, limitatamente a settori e funzioni definiti; nell’ipotesi qui considerata, tutte le politiche ed i servizi per la sostenibilità sarebbero oggetto di gestione integrata. Una parte significativa dell’organizzazione comunale viene così assorbita e ridisegnata per partecipare ad un’entità più grande e generare così maggiori e migliori risultati, grazie alla liberazione di risorse generata dall’economia di scala.
Per effetto dell’impulso dato da norme e incentivi finanziari, sia statali che regionali, nel corso degli anni duemila sono sorte molte forme associative intercomunali sotto forma di unione di Comuni, ente associativo previsto dal testo unico sull’ordinamento delle Autonomie locali. Attraverso le unioni, i Comuni possono condividere le rispettive risorse umane, finanziarie e strumentali, con le quali riorganizzare e razionalizzare i servizi. Un’occasione unica, nelle attuali condizioni della finanza pubblica, per innovare sensibilmente l’azione amministrativa a livello locale.
Le unioni, praticamente inesistenti fino al 1998 (ne esistevano 12 su tutto il territorio nazionale), iniziano a diffondersi dopo la promulgazione della L. 265/1999, che abolisce l’obbligo di fusione dei Comuni appartenenti all’Unione al compimento del decimo anno. Le Unioni diventano 290 nei primi anni 2000 e hanno un ulteriore incremento dopo il 2008, quando le comunità Montane vengono riconvertite in Unioni. A fine 2022, le unioni di Comuni registrate sul sito del Ministero dell’Interno sono 545, coinvolgono 3034 Comuni e interessano oltre 12 milioni di abitanti. Una realtà significativa, ma evidentemente non un modello universale di gestione dei territori.
L’ampio grado di libertà assegnato ai Comuni nella decisione di associarsi ha generato nei territori unioni di Comuni a macchia di leopardo, molto diversificate tra loro per dimensione e contenuto operativo, più o meno consistenti ed efficienti. In molte esperienze sul campo, il nuovo ente è stato visto come un soggetto terzo cui delegare servizi e funzioni o parte di essi, senza una approfondita riflessione sulle modifiche da apportare all’organizzazione e operatività degli enti coinvolti, venendo così a mancare un reale efficientamento del sistema di governo locale. Per rilanciare la prospettiva unionista occorre che i Comuni confinanti e operanti in un contesto territoriale relativamente omogeneo sviluppino un’effettiva integrazione operativa, per gestire meglio l’ordinario consueto, ma soprattutto per offrire le nuove prestazioni richieste dal tempo in cui viviamo. Per ottenere gli esiti ricercati, occorre però, diversamente da quanto avvenuto in questi decenni, che il processo di associazione abbia carattere obbligatorio[6] e sia preceduto da un’attenta analisi, progettando una nuova organizzazione integrata – comuni e Unione di comuni - che sia in grado di svolgere più funzioni con flessibilità, qualità ed efficacia.
Il cambiamento da attuare nella configurazione delle unioni a livello regionale deve essere quello già prospettato dall’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci) alcuni anni fa: non più obbligo associativo solo per i piccoli comuni, ma associazione di enti grandi e piccoli in base alla omogeneità territoriale, suddividendo quindi ogni Regione in ambiti ottimali di dimensione adeguata, attraverso processi di concertazione tra gli enti locali interessati.[7]
[1]La miopia umana è uno dei problemi all’origine della situazione critica attuale: già nel 1972, “I limiti dello sviluppo”, studio elaborato dal Massachusetts Institute of Technology per conto del Club di Roma, dava dimostrazione che l’essere umano è portato naturalmente a dare scarsa considerazioni a fenomeni lontani nello spazio o nel tempo.
[2]Le comunità energetiche nascono nell‘ordinamento europeo con la Direttiva Rinnovabili RED II, che, nel definire il target di energia rinnovabile al 2030 pari al 32%, riconosce ai cittadini il diritto di diventare autoproduttori, di autoconsumare, stoccare e vendere energia rinnovabile, nonché costituire a tali scopi Comunità Energetiche Rinnovabili (CER). La CER è un‘aggregazione di persone fisiche, piccole medie imprese, enti o autorità locali (inclusi i Comuni), dotata di personalità giuridica, a partecipazione aperta e volontaria, che ha l‘obiettivo, tramite la realizzazione e gestione di impianti di energia rinnovabile, di fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità e ai suoi membri.
[3]L’ente è definito di secondo livello nel caso in cui non venga costituito tramite elezione diretta ma indiretta; i votanti sono membri eletti per altri organi (i consigli comunali della provincia),
che con i loro voti determinano la composizione dell’organo di secondo livello.
[4]A partire dal 2010, attraverso una serie di decreti legge reiterati annualmente, è stato disposto un obbligo associativo per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti (3.000 nei comuni montani), mai implementato nei fatti, anche per le resistenze degli enti destinatari dell’obbligo. Nel 2018 è poi arrivata la pronuncia di incostituzionalità dell’obbligo associativo da parte della Corte Costituzionale, che ha rilevato la mancanza di opportunità per i piccoli Comuni di dimostrare la propria maggiore efficienza come singoli rispetto alla formula associativa.
[5]Per l’Italia, nel 2022, l’Istat ha registrato 611 SLL, di cui 54 in Toscana. Dati riportati in S. Iommi, “Associazionismo e fusioni di Comuni – Punti di forza e criticità delle politiche di incentivo”, IRPET, Firenze, 2017.
[6]L’obbligatorietà può essere ex lege ovvero intesa come requisito necessario per accedere a competenze e risorse assegnate dai livelli di governo superiori.
[7]I temi trattati in questo articolo sono trattati estesamente nel libro “Unire le forze per il futuro che vorremmo – Unioni di Comuni e sviluppo sostenibile” edito dal Centro Studi Enti Locali.
Nella sezione “approfondimenti” offriamo ai lettori analisi di esperti su argomenti specifici, spunti di riflessione, testimonianze, racconti di nuove iniziative inerenti agli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Gli articoli riflettono le opinioni degli autori e non impegnano l’Alleanza. Per proporre articoli scrivere a redazioneweb@asvis.it. I testi, tra le 4mila e le 10mila battute circa più grafici e tabelle (salvo eccezioni concordate preventivamente), devono essere inediti.