Editoriali
Per fare la nostra parte sul clima serve un grande dibattito nazionale
Glasgow è un grande “work in progress”, deludente ma non inutile. Sulla transizione ecologica in Italia c’è una grande confusione, che soltanto il presidente del Consiglio può risolvere con la proposta di un piano dettagliato. 5/11/21
di Donato Speroni
La crisi climatica ha dominato la scena in questa settimana, grazie al vertice del G20 e all’apertura della Cop 26 di Glasgow. La si può raccontare da tanti angoli diversi, attingendo alle cronache. Si può cominciare per esempio dalle critiche del Fatto Quotidiano che accusa i leader mondiali di aver dato un contributo sostanziale alle emissioni, spostandosi con i loro jet privati, anche se non ha tutti i torti Massimo Gramellini, che fatica a immaginare Joe Biden seduto su un jet di linea “vicino al finestrino accanto al ragionier Bianchi”. Oppure si può partire dal costo medio di 698 dollari per notte per un appartamento a Glasgow, secondo i dati Airbnb rilevati da Bloomberg Green, raccontando la storia di Mustafa Gerima, un biologo ugandese che avrebbe voluto riferire nella città scozzese della scomparsa del karité, pianta alimentare importante per l’Africa, ma che non ha potuto fare il viaggio sia per i costi proibitivi che per la mancanza di permessi.
Possiamo anche concentrarci sulla figura di Narendra Modi, il primo ministro indiano che ha scioccato tutti con l’annuncio che l’India non raggiungerà la parità climatica prima del 2070. Della politica di Modi si possono criticare tante cose, a cominciare dagli avalli al fanatismo hindu contro gli esponenti delle altre religioni, ma non serve colpevolizzarlo per lo scarso apporto alla battaglia climatica. Se tutti noi consumassimo come una famiglia media indiana, l’Earth overshoot day sarebbe il 31 dicembre anziché il 29 luglio: l’umanità cioè utilizzerebbe le risorse prodotte dalla Terra nell’anno senza impoverire il pianeta. È comprensibile che Modi voglia far crescere il suo Paese e spetta al consesso mondiale trovare il modo di aiutare l’India a farlo inquinando di meno.
Anche la promessa cinese di raggiungere la parità nelle emissioni soltanto nel 2060 può essere guardata da diversi angoli visuali. Come ci ricorda Stefano Feltri sul Domani,
La Cina è responsabile del 29 per cento delle emissioni di anidride carbonica, contro il 14 per cento degli Stati uniti. Ma in media un cinese emette 7,38 tonnellate di carbonio all'anno, un cittadino americano 15,52. Se si vuole fermare il riscaldamento, bisogna agire più in Cina che negli Stati Uniti, ma è equo imporre i sacrifici a Paesi che hanno soprattutto la colpa di essersi industrializzati dopo?
Insomma, quello che è emerso sia dal G20 che dall’apertura di Glasgow è che il tema è estremamente complesso, ogni segno di buona volontà deve essere valorizzato e non serve rinfacciarsi le inadempienze di oggi o gli errori del passato. Ha ragione Mario Draghi, quando afferma che nel mondo ci sono grandi capitali inoperosi che possono essere mobilitati per combattere la crisi climatica. Mercoledì 3, le 450 grandi imprese, unite nella Glasgow financial alliance for net zero, con un patrimonio complessivo di 130mila miliardi di dollari, hanno sottoscritto un accordo per gestire le loro finanze
sulla base delle indicazioni della scienza, al fine di raggiungere emissioni zero a metà secolo e obiettivi intermedi al 2030.
Come fa notare l’Economist, però, “gli impegni del mondo finanziario non basteranno a salvare il mondo”. Non solo perché non c’è ancora chiarezza su che cosa effettivamente è “verde”, ma per il fatto che la profittabilità delle misure per tagliare le emissioni non è scontata, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Per stimolare la transizione in questi Paesi dovrebbe intervenire il Green climate fund di 100 miliardi di dollari all’anno promesso dai governi dei Paesi ricchi, ma, come sottolinea il Financial times, oltre alla difficoltà di raccolta, c’è il fatto che la gestione di questo fondo è ancora confusa e oscura.
Segnali contrastanti: le somme si potranno tirare solo alla conclusione del vertice di Glasgow, ma l’impressione complessiva è che siamo di fronte a un grande work in progress: deludente per chi si aspettava decisioni ultimative, ma certamente non inutile. Consigliamo di seguire la cronaca quotidiana attraverso gli articoli pubblicati dal Comitato scientifico della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, diretta da Toni Federico, che è anche coordinatore del gruppo di lavoro Energia e Clima dell’ASviS, e proviamo a chiederci che cosa può e deve fare l’Italia, in una situazione che per certi versi è molto migliore di quella che potevamo immaginare un anno fa (un premier autorevole a livello internazionale, la possibilità di fare ingenti investimenti pubblici, una economia in ripresa), ma anche piena di incognite sulla effettiva possibilità di abbattere le emissioni del 55% entro il 2030, come abbiamo promesso all’Europa.
A tutt’oggi la sensazione prevalente è quella di una gran confusione. Il “Data room” di Milena Gabanelli, sul Corriere della sera e su La7, ci ha rivelato che non manca la volontà di realizzare impianti eolici e fotovoltaici, ma che le difficoltà burocratiche sono tali e tante da scoraggiare qualsiasi privato a intraprendere investimenti consistenti. Il ministro per la Transizione ecologica (Mite) Roberto Cingolani sembra propenso a parlare più di idrogeno e di nucleare che a impegnarsi sulle rinnovabili immediatamente a portata di mano. Intanto l’Italia, per i contrasti tra la Farnesina e il Mite, è arrivata a Glasgow senza un inviato speciale per il clima, previsto da un apposito decreto rimasto lettera morta. E si litiga anche sul ruolo del gas come “energia di transizione” per far fronte alla intermittenza delle fonti che dipendono da sole e vento.
Si tratta di nodi importanti; a complicarli contribuiscono anche i media. I giornali di destra prendono spunto dai rischi (reali) che corrono molte industrie a seguito del rincaro dell’energia, per attribuirne le colpe alla corsa troppo veloce e costosa verso il verde. Ma anche gli altri cadono nella trappola della drammatizzazione. Per esempio, un giornale autorevole come La Stampa ha aperto la prima pagina con il titolo “Cingolani: avanti sul nucleare”, quando il ministro ha detto solo di non fermare la ricerca e di attenersi alle indicazioni della Unione europea.
Da questo clima avvelenato si può uscire con una azione molto decisa del presidente del Consiglio. Il premio Nobel Giorgio Parisi ha dichiarato che senza un piano globale e dettagliato sarà impossibile azzerare le emissioni a metà secolo. Noi ci accontenteremmo di un piano dettagliato su come arrivare in Italia al 2030 con l’abbattimento promesso del 55%. Vorremmo che Mario Draghi, con lo stesso impegno che mette nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, sciogliesse i nodi della transizione ecologica, sbloccando tutte le pastoie burocratiche che fermano le rinnovabili, definendo con precisione un programma anno per anno: non serve a nulla dire che dobbiamo impiantare ogni anno “sette gigawatt di rinnovabili” cioè una quantità enorme, senza dire come si deve configurare la rete e quali sono le possibilità concrete di portare a compimento i progetti già esistenti. Può darsi che molte di queste risposte già esistano, magari in qualche cassetto del Mite, ma senza un grande dibattito politico non potranno mai vedere la luce. E solo Draghi ha la credibilità necessaria per gestire questo dibattito.
Per la transizione energetica in Italia è necessario anche coinvolgere la società civile e fare una grande opera di comunicazione. L’ASviS è pronta a impegnarsi in questa direzione, ma per ora i segnali sono confusi e incerti. Attendiamo una parola da Palazzo Chigi.
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