Editoriali
Il World Happiness Report e un sondaggio Ipsos raccontano le fonti della felicità. Trovare lo spazio per costruire rapporti positivi e di qualità diventa cruciale. Diritto alla disconnessione e città dei 15 minuti tra le possibili misure a supporto. 27/3/2025
“Questo sono io, queste sono tre persone, a cui darò il mio aiuto, ma deve essere una cosa molto importante. Una cosa che non possono fare da sole. Perciò io la faccio per loro. E loro la fanno per altre tre persone. Siamo a nove. Ne aggiungo tre a ognuno”. Fanno 27. E poi per altre tre, e altre tre…
Così un bambino delle medie di nome Trevor, nel film “Un sogno per domani”, racconta la sua idea “Passa il favore” al proprio insegnante, che aveva chiesto agli alunni come compito per casa di rispondere alla domanda: “Se non vi piace il mondo, come lo cambiereste oggi?” L’idea di Trevor dall’effetto moltiplicatore viene giudicata nel racconto da alcuni utopistica, da altri rivoluzionaria. Ma il punto cruciale è che Trevor vuole cambiare il mondo a partire dalle relazioni e dalla generosità. E in effetti sono proprio questi i fattori chiave che influenzano la felicità, come raccontano i risultati dell’ultimo World Happiness Report.
Il Rapporto, sviluppato dalle indagini condotte da Gallup in 147 Paesi nel mondo, esamina le differenti dimensioni della felicità, un concetto che molti credono sia estremamente diverso tra le varie culture, ma che in realtà non è così. Gli elementi che pesano, infatti, sono simili: salute, lavoro, reddito, relazioni. L’edizione di quest’anno si è concentrata proprio sul tema delle relazioni e sul legame tra benevolenza e felicità. Un tema che avevo in parte affrontato in un mio precedente editoriale, concentrandomi però soprattutto sulla felicità individuale e su come gli ingredienti offerti da un mondo sostenibile potessero agevolare l’accesso al benessere. In un panorama geopolitico segnato da conflitti, posizioni di forza, crisi del multilateralismo e polarizzazione all’interno dei singoli Paesi, vorrei concentrarmi invece proprio sull’importanza e gli effetti che possono avere la collaborazione, l’aiuto reciproco, la fiducia negli altri e il rispetto delle opinioni altrui sulle nostre società.
“Per essere più felici dobbiamo riscoprire le relazioni, basate su esigenze diverse, persone diverse, idee diverse, ma questo è un valore, non è un problema. Se vogliamo costruire un futuro più felice dobbiamo riflettere molto approfonditamente su come noi vediamo le relazioni con gli altri e costruiamo relazioni positive invece che solo conflittuali”, ha affermato Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’ASviS, nella sua rubrica settimanale “Scegliere il futuro” su Radio Radicale, commentando il Rapporto.
Il World Happiness Report ci dice che nei Paesi dove la benevolenza è diffusa, il benessere è più equamente distribuito e le disuguaglianze emotive sono ridotte; che nei momenti di crisi, come avvenuto durante la pandemia, le persone rispondono con maggiore empatia; che donare non è solo un beneficio per chi riceve, ma anche per chi pratica la generosità, se questa si fonda su una motivazione genuina; che condividere la quotidianità ci fa stare bene, come mangiare in compagnia; che legami familiari forti e abitazioni affollate (fino a quattro conviventi) favoriscono il benessere.
“Passa il favore”, tratto dal film “Un sogno per domani”, diretto da Mimi Leder, 2000
Anche nel sondaggio Ipsos “Happiness index”, condotto in 30 Paesi, troviamo i rapporti alla base delle fonti di felicità, che per gli italiani sono: famiglia e figli (per il 42% degli intervistati), sentirsi amati (32%), benessere mentale (26%), amicizie (25%), situazione abitativa (25%). A generare infelicità, invece, sono le condizioni economiche (52%), il non sentirsi amati (27%), i problemi di salute mentale (26%), la situazione sociale e politica del Paese (24%) e la mancanza di senso nella propria vita (21%).
Se vogliamo essere felici, insomma, dobbiamo sicuramente puntare di più sulle relazioni e gli affetti. Al di là delle differenze caratteriali individuali, credo che i principali ostacoli ai giorni d’oggi siano l’iperconnessione e la mancanza di tempo. Siamo troppo impegnati a lavorare tanto senza scollegarci a sufficienza; siamo travolti dai ritmi di vite frenetiche piene di impegni; in alcuni casi dobbiamo essere performanti allo stesso tempo come lavoratori, genitori, casalinghi, figli di padri e madri anziane, sentendoci poi inadeguati per non aver fatto abbastanza. Ma la giornata, sempre di 24 ore è. La stanchezza è umana. O magari invece abbiamo vite tranquille da riempire, dai ritmi più lenti, siamo in pensione, ma quando cerchiamo la relazione con gli altri ecco che li troviamo sempre impegnati o iperconnessi e che riuscire a trovare uno spazio di condivisione è difficile e magari ci si sente anche in difetto per essere sempre la persona che chiede di vedersi e “disturba”. O si è anziani e si ha bisogno di aiuto e ci si sente un peso. Ognuno con la sua storia, ma accumunati da una realtà: la felicità è relazione e dobbiamo creare gli spazi giusti per viverla.
L’invito che faccio a ognuno di noi è rallentare. So bene che non è facile. Questo vuol dire sforzarci di non essere sempre connessi al lavoro, separando gli spazi tra vita professionale e personale, oltre che rispettare gli orari di lavoro degli altri colleghi e colleghe. Vuol dire renderci conto che alcuni rapporti che abbiamo potrebbero essere troppo o esclusivamente “virtuali” (solo via chat, social, ecc.), e che è il momento di tornare a rivedere di più amici e conoscenti di persona. Vuol dire che quando siamo a pranzo o a cena con genitori, amici o figli, è ora di mettere via il telefono, anche se ci può costare sforzo, perché dobbiamo guardarci negli occhi e ritrovare la capacità di ascoltarci in modo genuino, concedendo la nostra piena attenzione anziché frammentarla fra mille attività. Vuol dire valutare di partecipare a qualche evento in presenza, non solo da dietro il computer, per fare networking, avviare nuove relazioni, entrare in contatto con nuove idee, anche diverse dalle nostre. Vuol dire ricordarsi di chiedere “come stai?”, per davvero, a chi entra dalla nostra porta di casa, anche se siamo presi dalle faccende domestiche, e di chiederlo anche a un amico o amica, collega o parente che sappiamo deve affrontare una giornata impegnativa. Vuol dire, oltre a organizzare pranzi o cene con qualcuno, anche fare passeggiate, giochi di società, esperienze da condividere. Vuol dire regalare piccole attenzioni inaspettate a qualcuno, per farlo sentire più amato o apprezzato, perché l’accumularsi di felicità passa anche da piccoli e semplicissimi gesti della quotidianità.
Creare questi spazi di relazione è un compito che non spetta però solo a noi: anche le istituzioni possono giocare la loro parte. È il caso, per esempio, della tutela del diritto alla disconnessione, sancito in diverse normative europee, che è il principio secondo cui ogni dipendente ha il diritto di non essere reperibile al di fuori dell'orario di lavoro, proteggendo così il tempo libero, i momenti dedicati al riposo e alla sfera personale, e di conseguenza la salute mentale. In Italia, il tema della disconnessione è stato introdotto per la prima volta con la legge n. 81/2017 sullo smart working, senza riconoscere la disconnessione però come un diritto e rimettendo la regolamentazione della stessa alla negoziazione tra le parti. Attualmente è in esame al Senato il disegno di legge 1290, che intende disciplinare le modalità di esercizio del diritto del lavoratore alla disconnessione in smart working.
Un’altra misura che può essere messa in campo dai Paesi riguarda la realizzazione delle “città dei 15 minuti”, in cui gli abitanti possono raggiungere scuole, teatri, presidi ospedalieri, negozi e altri servizi essenziali in pochi minuti, riducendo l’utilizzo dei mezzi di trasporto, migliorando l’accesso ai servizi e generando risparmi in termini di tempo e stress (ne abbiamo parlato qui, in un articolo sulle città con più aree pedonali del mondo).
Ma veniamo al digitale. Occorre intervenire sull’utilizzo dei cellulari, sia attraverso regole in famiglia, sia con normative e un’educazione nelle scuole alla relazionalità. Al di là della possibilità dei Paesi di vietare l’uso degli smartphone a scuola (sull’efficacia della misura ci sono pareri contrastanti, ne abbiamo parlato su FUTURAnetwork), le insegnanti e gli insegnanti possono ricoprire un ruolo importante nell’educazione per allenarli al tempo dell’attesa senza ansia, uscire dalla logica digitale del “tutto e subito”, riscoprire il piacere delle attività lente e di condivisione di persona.
A volte al mare vedo adolescenti che stanno vicini sotto un ombrellone, ognuno con il proprio smartphone in mano senza guardarsi, anziché giocare con il pallone o con la sabbia. Dovremmo interrogarci seriamente su come intervenire sull’iperconnessione delle giovani generazioni (ma non solo), anche oltre l’orario scolastico. Per fare un esempio, su una minima parte del problema, c’è un disegno di legge della California che cerca di proteggere i minori dalla dipendenza da chatbot, limitando l’uso delle cosiddette “ricompense intermittenti”, meccanismo psicologico di rinforzo che può rendere le interazioni con i bot particolarmente coinvolgenti, inducendo gli utenti a tornare per ottenere ulteriori gratificazioni. Il punto è che bisognerebbe andare al di là di singoli divieti, per arrivare a una strategia articolata fatta di tanti tasselli diversi. Questo è cruciale per la salute dei giovani, considerato che gli smartphone sono sotto accusa anche rispetto al tema dei suicidi tra minori. La capacità dei cellulari di creare una dipendenza comportamentale precoce, alimentata dal confronto con modelli irrealistici sui social e dall'esposizione a contenuti dannosi, ha portato molti giovani a isolarsi, sperimentando sentimenti di inadeguatezza e ansia.
Non si tratta solo di dipendenza tecnologica: l'uso eccessivo dei dispositivi digitali toglie anche spazio ad attività ricreative sane, favorisce la sedentarietà e incrementa il rischio di disagi mentali. Sempre il World Happiness Report evidenzia che il tasso dei morti da suicidi è più basso nei Paesi in cui un maggior numero di persone dona, fa volontariato o aiuta gli estranei. Ci dice però anche che nel mondo è in crescita la solitudine tra i giovani: nel 2023, il 19% degli adulti sotto i trent’anni ha dichiarato di non avere nessuno su cui contare, con un aumento del 39% rispetto al 2006. Un tema che deve spingerci a riflettere sulla qualità delle relazioni e sulla presenza effettiva delle famiglie.
La benevolenza, infine, ha anche un forte impatto sulla politica. Secondo l’indagine Gallup, il fenomeno del populismo è fortemente legato all’infelicità. La direzione che questo prende dipende dal livello di fiducia sociale: chi ha fiducia negli altri tende a orientarsi a sinistra, mentre chi diffida della società si sposta verso destra. Un fattore che spiega l'aumento della polarizzazione politica e dei voti contro "il sistema" riscontrato sia in Europa sia negli Stati Uniti. Gli Usa hanno perso molte posizioni nella classifica della felicità (dalla 15esima del 2023 alla 24esima del 2025, mentre l’Italia si posizionava 33esima ed è scivolata in 40esima posizione), perché le relazioni personali, sociali e politiche sono andate deteriorandosi in quel clima di conflitto sfociato con l’elezione del presidente Trump, come ha evidenziato ancora Giovannini su “Scegliere il futuro”. Una fetta consistente di americani (uno su tre, secondo recenti studi) soffre inoltre di una fortissima solitudine: mangiano da soli, non hanno relazioni, se sono in difficoltà non c’è nessuno che può aiutarli. Una caratteristica che invece il nostro Paese ha dimostrato di avere.
Il ruolo delle relazioni risulta cruciale, insomma, tanto per la felicità individuale quanto per quella collettiva. Il paradigma relazionale si sta affermando per di più come strumento di risoluzione delle criticità, dalla sanità al lavoro e alla transizione ecologica, come ricordano i tre paper presentati qualche giorno fa dall’iniziativa Piano B, che coinvolge diverse reti della società civile. E quella è la direzione da prendere, consapevoli, come ben comprende in punto di morte il giovane protagonista del film “Into the wild” (tratto da una storia vera), partito alla ricerca di se stesso, che “la felicità è reale solo quando è condivisa”.
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