Notizie
La Bce effettuerà il suo primo stress test climatico tra marzo e luglio 2022
Il settore economico-finanziario al banco di prova della Banca centrale. Calamità naturali e costi di transizione minacciano la stabilità. Uno studio di Nature evidenzia le conseguenze dell’inazione. 10/2/22
“Il cambiamento climatico potrebbe sconvolgere profondamente le nostre economie, le nostre imprese e le fonti di sostentamento nei prossimi decenni. I rischi associati ad esso, però, sono ancora poco compresi, in quanto gli shock climatici sono profondamente diversi dagli shock finanziari tipici delle crisi passate”. Così Luis de Guindos, vicepresidente della Banca centrale europea, in un post aveva annunciato il lancio del primo stress test climatico della Bce, rivolto a tutti i settori dell’economia, con l’obiettivo di assistere autorità e istituzioni finanziarie nella valutazione dell’impatto dei rischi climatici nei prossimi trent’anni. L’iniziativa sta entrando ora in una fase più operativa: da marzo le banche forniranno le loro risposte a un questionario dettagliato, mentre i risultati aggregati saranno rilasciati dalla Bce a partire dal prossimo luglio.
Due tipi di rischi. I pericoli climatici, in ambito economico, si dividono in due categorie: rischi fisici – derivanti dall’aumento delle calamità naturali – e rischi di transizione – generati dall’introduzione di politiche volte a ridurre la CO2, che potrebbero impattare su specifici settori ad alto consumo energetico e a elevata produzione di anidride carbonica. “I rischi fisici e di transizione possono compromettere la stabilità finanziaria se le banche o altre istituzioni finanziarie detengono esposizioni (in forma di crediti o partecipazioni) verso imprese che si rivelano insolventi proprio a causa dei cambiamenti climatici”, ha specificato de Guindos.
I risultati preliminari del test indicano che, in assenza di politiche climatiche innovative, i costi per le imprese – generati tanto da fenomeni naturali estremi quanto da una mancata transizione –aumenterebbero notevolmente. A sostegno di queste conclusioni, la Bce sottolinea che le spese a breve termine per l’adozione di politiche green sarebbero decisamente inferiori rispetto a quelle che si produrrebbero se quelle stesse politiche non venissero implementate.
Ed è proprio di rischi climatici fisici, di transizione e delle conseguenze economiche dell’inazione che si occupa anche lo studio recentemente pubblicato su Nature Climate Change “Near-term transition and longer-term physical climate risks of greenhouse gas emissions pathways”.
Questa ricerca mette in correlazione una serie di indicatori (fisici e di transizione) per una gamma di differenti percorsi di emissioni di gas serra, che possono condurre a un aumento della temperatura, entro la fine del secolo, compreso tra 1,5° e 4°C – utilizzando i 2°C come “caso di riferimento efficace”, un benchmark sulla cui base confrontare i rischi di temperature inferiori (1,5°C) o superiori (2,5°C-4°C).
I rischi fisici. Secondo il paper, le principali fonti di rischio “fisico”, già nel 2050, includono la possibilità di grandi ondate di calore e siccità, che influiranno pesantemente sul settore agricolo – in particolare sulle colture di mais, che si vedranno sottoposte a un forte stress termico e registreranno una riduzione della crescita annuale. Ad esempio, nel caso di un aumento di circa 3°C rispetto alla temperatura attuale si registrerà una probabilità maggiore del 30%-40% di incorrere in una forte ondata di calore entro il 2050, rispetto a uno scenario che si attesta intorno ai 2°C. Allo stesso modo, lo stress termico per il mais aumenterebbe di oltre il 50% in regioni chiave come la Russia, l'Unione europea e il Regno Unito, determinando riduzioni della resa comprese tra il 20 e il 30%, rispetto a un incremento di 2°C. Al contrario, mantenendosi entro 1,5°C di riscaldamento, si avrebbero una probabilità inferiore al 15% di grandi ondate di calore, una frequenza inferiore al 10% di lunghi periodi di stress termici per la coltura del mais e una riduzione del 10% della durata della sua crescita, rispetto a uno scenario a 2°C.
I rischi di transizione. Il documento include, in questo gruppo, i costi di mitigazione, l’incremento dei prezzi del carbonio, la riduzione dei gas serra, la variazione della domanda di combustibili fossili, dei prezzi dell'elettricità e dei raccolti. “A livello globale, lo scenario con 1,5°C ha valori notevolmente più elevati a livello di costi — a causa dell'alto livello di ambizione — rispetto agli altri scenari, per quasi tutti i valori”, si legge nello studio. Ad esempio, per raggiungere 1,5°C di riscaldamento, le spese di abbattimento nel 2030 si attesterebbero all'1,6% del Pil globale, rispetto allo 0,6% dello scenario di 2°C. Allo stesso modo, i prezzi del carbonio, a 1,5°C, risulterebbero raddoppiati, rispetto ai 2°C.
Qualsiasi scenario, però, “vedrà un equilibrio tra il rischio di transizione a breve termine (che è più alto nei percorsi più ambiziosi) e il rischio fisico a lungo termine (che è ridotto, sempre negli stessi percorsi)”. E questo, fondamentalmente, vuol dire solo una cosa: anche se all’inizio il cambiamento costerà di più, i benefici, sul lungo periodo, saranno sempre maggiori.
di Flavio Natale