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Amnesty international: dall’austerità economica alla violazione dei diritti umani
Le politiche di restrizione dei bilanci pubblici colpiranno nei prossimi anni due terzi dei Paesi, con conseguenze particolarmente gravi in quelli a più basso reddito. Ogni scelta economica deve tenere conto delle conseguenze sociali.
Il nuovo rapporto annuale di Amnesty international parla chiaro. Risultato di analisi incrociate di dati provenienti da 159 paesi, è un manifesto a denuncia dell’avvenuta propagazione di una serie di politiche globali orientate all’odio razziale, al nazionalismo, al respingimento dei flussi migratori, alla giustificazione della povertà sociale come tratto inscindibile della crescita economica dei Paesi più sviluppati. Esse sono ben più profonde di quanto si possa pensare, in quanto vanno spesso a ledere i diritti fondamentali dell’essere umano: diritto ad una vita dignitosa, il diritto all’istruzione, il diritto alla previdenza sociale e via dicendo.
Dall’inizio della crisi finanziaria nel 2008, queste politiche economiche hanno basato il loro piano d’azione sull’aumento delle tasse, alzando il prezzo dei beni di prima necessità ed intaccando invariabilmente una specifica fascia della società, la più debole. Come risultato di questa scelta, nei prossimi tre anni oltre i due terzi di tutti Paesi potrebbero essere colpiti dall’austerità, con conseguenze su oltre sei miliardi di persone, di cui 2,4 milioni solo nei Paesi a basso reddito. La situazione, già problematica in se stessa, non farà altro che aggravarsi, considerando che più si procede in tale direzione e più ci si allontana dai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) contenuti nell’Agenda 2030. L’attuazione dell’Agenda richiede al contrario un forte e continuo coinvolgimento di tutte le componenti della società, in quanto il modello di sviluppo proposto non è solo su un piano ambientale ma anche economico e sociale.
Il rapporto solleva una serie di dubbi a cui i vari governi nazionali dovranno rispondere, presto o tardi, anche ai cittadini. La soluzione, come suggerisce Amnesty, non è di proibire il modello dell’austerità economica quanto di rivalutare le decisioni prese sotto un punto di vista sociale, chiedendosi se effettivamente questi processi rispettino gli standard dei diritti umani sanciti dalle varie carte internazionali degli ultimi 20 anni.
Tra le proposte avanzate a livello globale ed inserite nel rapporto di Amnesty, alcune sono state ritenute radicali ed utopiche, ma dato lo stato delle cose sembrerebbe più logico dargli almeno una possibilità prima di dire no a scatola chiusa. Tra le varie idee due sembrano particolarmente interessanti: il salario minimo universale- di cui sono stati già avviati progetti piloti in vari Paesi- e il pagamento da parte dello Stato di tutti i servizi chiave basilari, evitandone la privatizzazione.
Nonostante le varie proposte, ad oggi i dati raccolti da Amnesty sembrerebbero smentire le aspettative, visto l’incremento costante e massiccio di una fascia della popolazione globale a reddito zero o quasi, sprovvista anche dei minimi beni necessari. Infine si assiste a un contemporaneo aumento di aiuti e sussidi veicolati tramite le organizzazioni no-profit e religiose, che al di fuori delle lunghe reti burocratiche, diventano le sostitute dei governi purtroppo assenti o altrimenti impegnati.
di Giuliana Rizzari