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Mais, grano, riso e soia occupano circa il 50% delle terre coltivate nel mondo
A lanciare l’allarme sulla perdita di biodiversità nel comparto agricolo è uno studio canadese che basa le sue ricerche sui dati della Fao: le aziende agricole di Asia e Europa somigliano sempre più a quelle americane. 12/3/2019
Di 6mila specie vegetali coltivate sul pianeta, in meno di 200 contribuiscono alla stragrande maggioranza del cibo prodotto e, di queste, “solo nove vengono utilizzate per il 66% della produzione totale”.
Per quanto riguarda le specie animali, su 7745 razze di bestiame conosciute, il 26% è a rischio estinzione.
E ancora, più della metà delle risorse ittiche di tutti gli ecosistemi marini nel mondo vive già una condizione vicina alla non sostenibilità (ovvero non viene assicurato il tasso di riproduzione delle specie), con circa il 33% delle specie marine che risultano sovrasfruttate.
Dati diffusi dalla Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, che attraverso il rapporto "The State of the World’s Biodiversity for Food and Agriculture" lancia un messaggio forte e chiaro: la biodiversità, alla base dei meccanismi di sussistenza del genere umano, sta scomparendo.
Partendo proprio da una serie di studi prodotti dalla Fao, un team di ricercatori dell’Università di Toronto si è posto la seguente domanda: quante e quali sono le colture su cui si basa il sistema agricolo globale?
Soia, grano, riso e mais, solo queste quattro specie vegetali occupano circa il 50% delle terre coltivate sul pianeta, il resto viene spartito da altre 152 colture. Un numero abbastanza esiguo, se pensiamo che attualmente le persone da sfamare sono circa 7 miliardi e arriveranno quasi a 10 miliardi entro il 2050.
Il problema della perdita di biodiversità nel comparto alimentare è piuttosto recente. Nel 1980, infatti, il mondo aveva conosciuto il picco massimo di diversità nelle colture ma, da quando si sono affermate negli anni ’90 sul mercato le grandi multinazionali del cibo e dei semi, il processo di produzione alimentare si è andato pian piano uniformando.
Secondo lo studio “Regional and global shifts in crop diversity through the Anthropocene” condotto dai ricercatori canadesi, siamo di fronte a un bel problema.
In primis, perché una minor diversità biologica non incide solamente sul contenuto dei nostri piatti, ma è capace di generare diversi effetti indesiderati: rende l’intera produzione alimentare globale meno resistente a parassiti e malattie, ingigantendo così i rischi legati alla sicurezza alimentare.
In secondo luogo, perché la sparizione di determinate culture può avere anche risvolti etici: pensiamo ad esempio a tutte quelle persone che identificano nel mangiare un determinato cibo parte del proprio bagaglio culturale.
Secondo la prima firma dello studio, Adam Martin del Dipartimento di scienze fisiche e ambientali dell'Università di Toronto, spetta ai decisori politici intervenire: “Sarà importante capire se i governi si muoveranno per promuovere più tipi di colture diverse, o se continueranno a incentivare le stesse forme di colture”.
Le grandi aziende agricole globali, infatti, sembrano diventare sempre più simili: in Asia e in Europa i processi di produzione alimentare tendono a diventare come quelli del Nord e del Sud America.
Guarda lo studio dei ricercatori canadesi
di Ivan Manzo