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Ipbes: un milione di specie a rischio estinzione
Un rapporto descrive la condizione dell’ecosistema terrestre. Tra colture intensive e prosciugamento delle risorse idriche, boom della popolazione e iperproduzione alimentare, l’essere umano sta erodendo la base della propria stessa vita. 8/5/209
“L’ecosistema è in declino a ritmi senza precedenti nella storia dell’essere umano e il tasso di estinzione delle specie sta accelerando”. L’Ipbes, piattaforma intergovernativa di scienza e politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici, ha annunciato pochi giorni fa i risultati del rapporto Ipbes, la più completa analisi sulla condizione del biosistema mai intrapresa nella storia. Il documento ha coinvolto in tre anni oltre 450 scienziati e diplomatici. “La natura viene distrutta a una velocità da decine a centinaia di volte superiore alla media negli ultimi dieci milioni di anni” avverte il Rapporto.
La situazione è più seria del previsto. La biomassa dei mammiferi selvatici è diminuita dell'82%, gli ecosistemi naturali hanno perso circa la metà della loro area e un milione di specie sono a rischio di estinzione. Due anfibi su cinque sono a rischio estinzione, così come un terzo dei coralli della barriera corallina e quasi un terzo delle altre specie marine. Il quadro per gli insetti, fondamentali per l'impollinazione delle piante, è meno preciso, ma stime suggeriscono che almeno un insetto su dieci sia minacciato di estinzione, creando un danno economico inimmaginabile. La perdita di questi impollinatori mette a rischio 577 miliardi di dollari di produzione agricola, mentre il degrado del suolo ha ridotto la produttività del 23%.
"Stiamo erodendo le basi delle nostre stesse economie, dei mezzi di sussistenza, della sicurezza alimentare, della salute e della qualità della vita in tutto il mondo" afferma a proposito Robert Watson, presidente dell’Ipbes. "Abbiamo perso tempo. Dobbiamo agire ora".
Tre quarti di tutti i terreni nel mondo sono campi coltivati, strade di cemento, bacini idrici o territori fortemente modificati. Due terzi dell'ambiente marino sono stati modificati da allevamenti ittici, rotte marittime, miniere sottomarine e altri progetti. Tre quarti di fiumi e laghi sono utilizzati per la coltivazione di colture o bestiame. “Ciò vuol dire che più di 500mila specie hanno habitat insufficienti per la sopravvivenza a lungo termine” precisa il Rapporto. Molte specie sono in procinto di scomparire entro i prossimi decenni.
L'agricoltura e la pesca sono le cause maggiori del deterioramento. La produzione di cibo è aumentata notevolmente dagli anni '70, così come la popolazione mondiale, facendo pagare alla Terra un prezzo elevato. L'industria della carne ha un impatto enorme: le aree di pascolo per i bovini rappresentano circa il 25% della superficie mondiale senza ghiaccio e oltre il 18% delle emissioni globali di gas serra. La produzione agricola utilizza il 12% del terreno e crea meno del 7% delle emissioni.
In termini di habitat, la perdita più profonda è quella delle zone umide, prosciugate dell'83% dal 1700. Le foreste stanno diminuendo, in particolare nei tropici. Nel periodo 2000-2013, l'area della foresta intatta è diminuita del 7% (un’area maggiore di Francia e Regno Unito messi insieme).
Anche gli oceani costituiscono un’area fortemente a rischio. Solo il 3% delle aree marine è incontaminata, mentre la pesca industriale si svolge in più della metà degli oceani del mondo, con un terzo delle popolazioni ittiche sovra sfruttate.
Le emissioni continuano a salire. Durante la settimana scorsa, la quantità di anidride carbonica nell'atmosfera ha superato per la prima volta le 415 ppm (parti per milione).
La crescita della popolazione è considerata un altro fattore di disequilibrio, insieme alla disuguaglianza. “Gli individui nelle nazioni sviluppate hanno un'impronta economica quattro volte più alta di quelli nei Paesi più poveri, e il divario sta crescendo” dichiara il Rapporto.
“Gli esseri umani utilizzano 60 miliardi di tonnellate di risorse ogni anno, quasi il doppio di quelle del 1980, sebbene la popolazione mondiale sia cresciuta solo del 66% in quel periodo” prosegue il documento. Anche gli stessi scarichi industriali stanno sfidando la capacità della Terra di assorbirli. Oltre l'80% delle acque reflue viene pompato in flussi, laghi e oceani senza trattamento, insieme a 300 milioni di tonnellate di metalli pesanti, liquami tossici e altri scarichi industriali. “I rifiuti in plastica sono aumentati di dieci volte dal 1980, colpendo l'86% delle tartarughe marine, il 44% degli uccelli marini e il 43% dei mammiferi marini”.
Il Rapporto riconosce inoltre che le attuali strategie di conservazione, come la creazione di aree protette, sono positive ma inadeguate. Le previsioni future indicano che le tendenze negative continueranno in tutti gli scenari tranne quelli che opereranno cambiamenti radicali nella società, nella politica, nell'economia e nella tecnologia. Con “cambiamenti significativi” si intende spostamento degli incentivi, investimenti in infrastrutture verdi, contabilità per il deterioramento della natura nel commercio internazionale, risposta ai livelli disuguali di consumo, maggiore cooperazione tra i settori, nuove leggi ambientali, protezione delle comunità indigene e altre riforme.
Dunque la situazione è critica ma le soluzioni esistono, basta attuarle. Di questo avviso è Josef Settele, co-presidente di Ipbes ed entomologo presso il Centro Helmholtz per la ricerca ambientale in Germania, che dichiara: "La situazione è difficile ma non mi arrenderei mai. Il Rapporto mostra che c'è una via d'uscita. Credo che possiamo ancora piegare la curva”.
di Flavio Natale