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Oil: il mondo del lavoro riparta da un sistema verde, inclusivo e resiliente
Un ritorno al passato non è un’opzione praticabile, perché il mondo pre-Covid era tutt’altro che normale: il nuovo brief dell’Organizzazione mette al centro le enormi fragilità rivelate dalla pandemia, dai giovani al gender gap. 1/7/20
Una crisi occupazionale senza precedenti. Con una previsione di un’emorragia di 305 milioni di posti di lavoro a tempo pieno per il secondo trimestre del 2020, mentre il 38% della forza lavoro globale è impiegata in settori ad alto rischio. Sono gli effetti della pandemia sull’occupazione, riassunti dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) nel nuovo policy brief “The World of Work and Covid-19”, sviluppato dal dipartimento per le politiche dell’occupazione dell’Oil in collaborazione con il segretario generale delle Nazioni unite e lanciato il 18 giugno.
Il documento avverte che gli impatti socio-economici della pandemia stanno ricadendo in modo sproporzionato su coloro che erano già in circostanze precarie prima della crisi. I due miliardi di persone che lavorano duramente nell'economia informale, spesso senza diritti sul lavoro e protezioni sociali, hanno subito un calo del 60% degli utili solo nel primo mese della crisi. Le donne sono state particolarmente colpite, poiché fortemente rappresentate in settori ad alto rischio e sono spesso tra le prime a perdere l'occupazione e le ultime a ritrovarla. Le persone con disabilità, che stanno già affrontando l'esclusione dal lavoro, rischiano di incontrare difficoltà nel riprendere l’attività in questa fase. Infine, i giovani rappresentano oltre quattro lavoratori su dieci impiegati a livello globale nei settori più colpiti.
Stime della Banca mondiale suggeriscono che la pandemia potrebbe spingere quest’anno 70-100 milioni di persone sotto la soglia di povertà, rappresentando l’aumento più alto mai verificatosi dal 1998. Inoltre, il numero di persone destinate a rimanere in una condizione di povertà, anche se possiedono un lavoro, potrebbe arrivare a 35 milioni.
I rischi per settore
A livello globale, circa 1,25 miliardi di lavoratori - il 38% della forza lavoro - sono impiegati in settori ad alto rischio. Si tratta di comparti ad alta intensità di manodopera, che occupano lavoratori poco qualificati e con livelli scarsi di retribuzione. Questi i settori che hanno subito gli effetti più drastici dell’emergenza sanitaria: servizi di ristorazione e ospitalità (144 milioni di lavoratori); servizi alle imprese e amministrazione (157 milioni); vendita al dettaglio e all'ingrosso (482 milioni); produzione (463 milioni). In quest’ultimo comparto alcune filiere, come l’industria automobilistica in Europa, sono state chiaramente più colpite di altre. Particolarmente a rischio, in previsione futura, il settore agricolo, che impiega oltre un miliardo di persone in tutto il mondo e costituisce la spina dorsale di molti Paesi a basso reddito. Le interruzioni a lungo termine negli scambi e nelle catene di approvvigionamento possono avere un impatto devastante sui già elevati tassi di povertà delle zone rurali del mondo.
La crisi ha picchiato duramente ma non tutti allo stesso modo. Pesante è stato l’impatto sugli occupati della cosiddetta gig economy, spesso giovani, impiegati in lavori saltuari e privi di un vero contratto (rider, autisti privati, affittacamere). Il rapporto stima che il tasso di povertà relativa, definito come la percentuale di lavoratori con guadagni mensili che scendono al di sotto del 50% dei guadagni mediani nella popolazione, dovrebbe aumentare di quasi 34 punti percentuali a livello globale per i lavoratori di questo settore.
L’impatto sulle lavoratrici
Le donne sono state particolarmente colpite dalla crisi: lavorano spesso nei settori più a rischio, rappresentano oltre il 70% nel lavoro di cura (dei propri famigliari e della rete parentale allargata), sono spesso tra le prime a perdere l'occupazione e le ultime a ritrovarla. Il lavoro di assistenza non retribuita, in cui le donne sono più del triplo rispetto agli uomini, è aumentato durante i blocchi imposti dalla pandemia, limitando ulteriormente l’accesso delle donne all’occupazione e incidendo sui fattori di stress per la salute fisica e mentale. Già prima della pandemia, in Asia occidentale e Africa settentrionale quasi una donna su cinque era disoccupata (17,7%), a fronte di un tasso di disoccupazione maschile nettamente inferiore (8,4%). Nella stessa area geografica, oltre una giovane donna su tre (40,1%) rientra nella categoria dei Neet, ossia di chi che non lavora (disoccupato o inattivo) e non è coinvolto in nessun tipo di formazione. A livello globale, l’incidenza delle donne (31,1%) nell’universo dei Neet è sempre più alta rispetto agli uomini.
Le azioni per ripartire
L’Organizzazione suggerisce un’azione su tre fronti. In primo luogo, sostegno immediato a lavoratori, imprese, posti di lavoro e redditi a rischio per evitare chiusure, ulteriori perdite di posti di lavoro e calo del reddito. In secondo luogo, una maggiore attenzione sia alla salute che alla ripresa economica dopo i blocchi, con posti di lavoro sicuri e tutela dei diritti delle donne e delle categorie a rischio. In terzo luogo, una mobilitazione per una ripresa centrata sull'uomo, verde, sostenibile e inclusiva che sfrutti il potenziale delle nuove tecnologie per creare posti di lavoro dignitosi per tutti e attinga anche a nuove modalità, come lo smart working, che le aziende e i lavoratori hanno adottato durante la crisi.
Come spiega il documento: “Il mondo del lavoro non può e non dovrebbe apparire uguale dopo questa crisi. Disuguaglianze crescenti, discriminazione sistemica di genere, mancanza di opportunità per i giovani, stipendi inadeguati, cambiamenti climatici. Nessuna di queste cose era normale”.
di Andrea De Tommasi