Editoriali
Sui grandi temi del mondo, i futuri possibili si riassumono in tre ipotesi
Alla fine avremo uno di questi scenari: la distopia, cioè il collasso della civiltà, l’utopia, cioè la costruzione di uno sviluppo sostenibile oppure il piano inclinato del degrado, frutto della mancanza di coraggio dei governi.
di Donato Speroni
L’impegno dell’ASviS mira alla costruzione di un futuro. Il concetto di “sviluppo sostenibile” delinea un progresso che salvaguarda l’intera umanità e il Pianeta in cui viviamo. L’Agenda 2030 è la bussola che ha consentito di fissare alcuni principi universali sui quali costruire la sostenibilità. Il nostro sito futuranetwork.eu esplora il futuro anche al di là del 2030 e vuole stimolare il dibattito per costruire insieme uno scenario accettabile.
Soprattutto nell’attività di Futura, ma anche nei seminari che abbiamo svolto all’interno dell’Alleanza e nelle riflessioni di questi giorni legate alla guerra, mi sembra di poter dire che le proiezioni sul futuro a medio e lungo termine (diciamo con orizzonte a metà secolo) sono sostanzialmente tre.
Primo scenario: la tempesta perfetta. È la distopia che ci viene presentata in centinaia di racconti e di film di fantascienza, ma che purtroppo può diventare realtà. È lo scenario che potrebbe derivare dal superamento dei tipping points, cioè di quei punti di non ritorno nell’equilibrio del Pianeta oltre i quali potrebbe esserci la catastrofe. È legato a fattori che non siamo in grado di valutare pienamente. Per esempio, abbiamo la certezza che gli effetti del cambiamento climatico non sono lineari: i danni di un aumento di tre gradi non sono necessariamente doppi di quelli che deriverebbero da un riscaldamento di un grado e mezzo, perché potrebbero mettersi in moto fenomeni che aggraverebbero le conseguenze: per esempio lo scioglimento del permafrost alle latitudini artiche, che oltre a compromettere la stabilità delle costruzioni potrebbe far aumentare di molto i gas serra a causa del metano sottostante che verrebbe disciolto nell’aria; oppure l’inversione della Corrente del Golfo che nonostante il riscaldamento generale porterebbe l’Europa centrale a somigliare al Labrador; o uno scioglimento accelerato dei ghiacciai antartici con le conseguenze facilmente immaginabili a causa dell’innalzamento dei mari. Nel complesso, un quadro di grandi catastrofi, di decimazione dell’umanità, forse di migrazione su altri pianeti per pochi fortunati, sempre che i migranti intergalattici non facciano la fine di Meryl Streep in Don’t look up!
Secondo scenario: lo sviluppo sostenibile. È l’obiettivo delle donne e degli uomini di buona volontà: un mondo pacifico, nel quale tutta l’umanità ha abbastanza per vivere senza però danneggiare le risorse per le future generazioni, rispettosa dell’ambiente, della biodiversità, ma anche dei diritti di tutti. Uno scenario certamente difficile da costruire, ma che ha negli impegni dell’Agenda 2030 la premessa indispensabile. Quegli impegni nel 2015 furono condivisi da tutti i Paesi dell’Onu, ma ci sarebbe da chiedersi se analoghe promesse potrebbero essere sottoscritte oggi, dopo i quattro anni di amministrazione di Donald Trump che ha cercato in tutti i modi di sfasciare la cooperazione multilaterale, e dopo l’aggressione russa all’Ucraina che induce addirittura a ipotizzare l’espulsione di Mosca dall’Onu. L’impegno globale dell’umanità per lo sviluppo sostenibile è un filo sottile che potrebbe continuamente spezzarsi, ma è l’unico che possiamo percorrere per non cadere nel baratro. È l’utopia che si oppone alla distopia, ma nella quale manteniamo solide basi di speranza: per esempio, anche in questi giorni di guerra, proseguono i lavori dell’Ipcc per aggiornare le previsioni degli scienziati di tutto il mondo sugli interventi necessari per mitigare il cambiamento climatico. Speriamo, come ho scritto in passato, che questa terribile esperienza si concluda con il ripristino dei diritti degli ucraini ma anche con un nuovo clima di collaborazione internazionale, con istituzioni più solide e una maggiore consapevolezza delle sfide che dobbiamo affrontare tutti insieme.
Terzo scenario: il degrado progressivo. Tra la distopia e l’utopia c’è il piano inclinato di un lento e continuo peggioramento delle condizioni di convivenza e del rapporto col Pianeta. È uno scenario basato sul business as usual: i governi non riescono a elaborare risposte decisive alle sfide che abbiamo davanti, anche perché devono rispondere a opinioni pubbliche timorose e non totalmente consapevoli dei rischi, che gli stessi politici evitano di informare compiutamente per timore delle conseguenze elettorali. È importante osservare che il business as usual non porta al mantenimento del mondo come noi lo conosciamo, perché già oggi siamo in un lento declino che ci conduce, se non alla catastrofe, certamente a un progressivo degrado. Lo squallore di questo scenario è stato ben descritto dal norvegese Jorgen Randers, che ho citato altre volte perché la sua diagnosi mi ha molto colpito. Un allora giovanissimo Randers partecipò agli studi che portarono alla pubblicazione nel 1972 dei “Limits of growth”, il lavoro previsionale che il Club di Roma commissionò al Massachusetts institute of technology. Nel 2012 lo stesso studioso scrisse “2052; scenari globali per i prossimi quarant’anni” una ricerca nella quale, oltre a verificare la fondatezza di molte previsioni formulate quarant’anni prima, spingeva lo sguardo fino a metà secolo, concludendo con una serie di consigli pratici del tipo: “Non comprate case vicino al mare”, oppure: “Abituate i vostri figli ad amare i videogiochi anziché la natura, perché di natura che meriti di essere contemplata ne sarà rimasta poca”. Insomma, un’umanità preda delle stesse passioni di oggi, in un contesto triste e conflittuale. Forse questo piano inclinato è lo scenario più probabile, se non ci condanneranno i tipping points già inconsapevolmente oltrepassati e non saremo capaci del colpo di reni verso la sostenibilità globale.
La schematizzazione in tre scenari si può applicare a molto materiale che presentiamo sui nostri siti quando parliamo di futuro. Per esempio, l’interessante presentazione di Roberto Paura nella serie “C’è futuro e futuro” delinea tre ipotesi sull’uso dell’arma nucleare nell’attuale guerra, ma anche nei possibili conflitti successivi: l’Armageddon, cioè un uso estensivo delle bombe atomiche che porterebbe all’ “inverno nucleare” cioè alla schermatura della luce solare per anni, con conseguente strage (oltre che per le bombe e le radiazioni) di una parte consistente dell’umanità; seconda ipotesi, un accordo che riesca davvero a mettere al bando l’uso di queste armi micidiali, oppure, ecco il piano inclinato, un uso limitato di atomiche “tattiche” capaci di mirare il loro effetto distruttivo su pochi chilometri. Non possiamo dire che è business as usual perché per fortuna l’uso tattico dell’atomica finora non si è mai visto, ma sarebbe certamente la continuazione di una visione cinica, incurante delle conseguenze ultime per l’intera umanità.
Anche guardando ad altri materiali pubblicati recentemente da Futuranetwork, il criterio delle tre alternative si applica perfettamente. Il rapporto “A new era for Europe”, realizzato dal Gruppo di alto livello convocato dal commissario per l'Economia della Commissione europea, Paolo Gentiloni, delinea appunto tre scenari dai titoli molto chiari e dei quali uno solo è sostenibile: “Frammentazione e conflitto”; “New era”; “Business as usual”. Tre, con analoghe caratteristiche, sono gli scenari del Millenium project sul futuro del lavoro e della tecnologia, presentati da Mara Di Berardo. E si potrebbe continuare.
Concludo ricordando che come ogni anno, il 20 marzo si è festeggiata la “Giornata internazionale della felicità”, una ricorrenza decisa dall’Onu nel 2011. Come ogni anno rispondo alla domanda: “Perché, tra le tante ricorrenze stabilite dalle Nazioni unite, dare spazio a questo Happiness day che nei tempi attuali sembra così anacronistico?” Rispondo che è bene ricordare che la felicità (nel senso inglese, in cui happiness richiama la soddisfazione per una vita piena piuttosto che una gioia momentanea, che noi spesso associamo al termine “felicità”) è lo scopo ultimo a cui mira tutta l’umanità. Come fu detto all’Onu al momento della istituzione della Giornata: “I popoli si stanno rendendo conto che il progresso deve tradursi in un aumento della felicità umana e del benessere, non solo in una crescita dell’economia”. L’attenzione alla happiness è dunque strettamente legata agli studi beyond Gdp, cioè alla ricerca dei valori misurabili che vanno al di là del Pil e che consentono di valutare i progressi del benessere collettivo.
In occasione dell’International day of happiness ogni anno viene anche pubblicato il “World happiness report”, una pregevole ricerca che fornisce i dati del sondaggio internazionale della Gallup sulla soddisfazione per la propria vita in 146 Paesi e al tempo stesso contiene una serie di studi aggiornati in merito alla sensazione di felicità e alle sue origini. Le classifiche hanno un limite che ha sempre impedito di considerarle pienamente attendibili, perché popoli di cultura diversa rispondono diversamente alla stessa domanda sull’autopercezione della soddisfazione per la propria vita: più prudenti gli asiatici, per esempio, più propensi ad attribuirsi voti alti i nordici, gli anglosassoni, ma anche i latinoamericani seppur talvolta in condizioni difficili. Le variazioni temporali relative alla stessa popolazione sono comunque indicative. Nel complesso, il rapporto sottolinea le diseguaglianze presenti nell’umanità e non stupisce di trovare in fondo alla classifica lo Zimbabwe, il Libano e l’Afghanistan.
Anche agli studi sulla felicità possiamo applicare il criterio dei tre scenari: la costruzione di un mondo migliore, che aumenti il benessere collettivo; il business as usual, cioè le profonde differenze tra chi può permettersi di godere di un ragionevole benessere e chi manca dei mezzi essenziali (non solo di denaro, ma di sicurezza e condizioni di vita) per poter essere felice. Infine, lo scenario del disastro: una grande infelicità collettiva e la fine del mondo come noi lo conosciamo. Lavorare per lo sviluppo sostenibile vuole anche dire lavorare per la felicità di tutti.