Editoriali
Terrorismo e Tirannia minacciano le nazioni democratiche e il futuro del mondo. Il dibattito tra chi è convinto che ci siano guerre da vincere e chi fa prevalere le ragioni della pace è doveroso, ma occorre saper ascoltare.
di Donato Speroni
Questa settimana Rai Radio 3 ha affidato “Prima pagina”, la rassegna commentata quotidiana dei giornali, alla professionalità e all’equilibrio del direttore dell’Ansa Luigi Contu, il quale, nel suo commento di lunedì scorso, ha detto
Mi fa impressione leggere i commenti degli ascoltatori alle notizie che noi pubblichiamo sull’Ansa quando queste notizie non vanno nella direzione che noi auspichiamo. Se sei un lettore a favore dei palestinesi e ti senti di sposare la loro causa qualsiasi notizia che va contro questa direzione diventa falsa, diventa costruita dall’altra parte. E questo è un modo di leggere, di ragionare, di capire che ci porta fuori strada, che ci allontana dallo spirito critico che tutti, soprattutto in queste vicende, dobbiamo tenere anche al di là di quello che ci piace o non ci piace. Ma purtroppo questo non sta accadendo, ci si sta radicalizzando. Dalla guerra con le armi si arriva alla guerra delle parole e le persone fanno fatica a distinguere. Dovremmo mantenere tutti quanti un po’ di raziocinio ricordando le lezioni di Kant, ma ahimè...
Correttamente, Contu sottolinea non solo le spaccature che si stanno producendo nell’opinione pubblica a causa dell’attacco terroristico di Hamas e della violenta reazione di Israele, ma anche il deteriorarsi del modo nel quale ci si forma un’opinione: superficialità e scarsa permeabilità alla realtà, quando questa è sgradita, possono rendere ingestibile la democrazia.
Da un giornalista all’altro, certamente molto diverso. In un quarto d’ora di podcast, il direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio ha ricostruito quasi un secolo di conflitti tra arabi ed ebrei in Palestina, annotando, con una obiettività che può sorprendere molti, le responsabilità delle leadership palestinesi e israeliane, tra cui, da un lato, il persistente rifiuto degli arabi di riconoscere la realtà dello Stato ebraico, mantenendo aperto il bubbone dell’ambigua condizione di Gaza e della Cisgiordania caratterizzate da autoritarismo e corruzione, povertà e violenza; dall’altro, il deterioramento delle politiche israeliane nei territori occupati, con l’insediamento forzato di quasi 300 colonie ebraiche nel territorio di quello che, secondo gli Accordi di Oslo, avrebbe dovuto essere il futuro Stato palestinese. Una politica ispirata da Benjamin Netanyahu che ricorda quella del Sudafrica dell’apartheid e che ha approfittato della mancanza dall’altra parte di un Nelson Mandela, al cui posto c’è Abu Mazen, circondato dai fanatici delle varie formazioni islamiste.
Dobbiamo innanzitutto sottolineare come la disastrosa condizione dell’area che chiamiamo Terrasanta violi quasi tutti gli elementi che l’Agenda 2030 colloca all’interno del Goal 16: la riduzione di tutte le forme di violenza e dei tassi di mortalità connessi; l’eliminazione degli abusi, dello sfruttamento, del traffico e di tutte le forme di violenza e tortura contro i bambini; la promozione dello stato di diritto e la garanzia di parità di accesso alla giustizia per tutti; la riduzione dei flussi finanziari e di armi illeciti, della corruzione e della concussione in tutte le loro forme; la trasparenza delle istituzioni e la protezione delle libertà fondamentali; la prevenzione della violenza e la lotta al terrorismo e alla criminalità; la promozione di leggi e politiche non discriminatorie.
Se aver distolto per anni e anni lo sguardo da quella condizione “insostenibile” rappresenta una colpa di tutta la comunità internazionale, mi sembra di poter riassumere gli atteggiamenti dell’opinione pubblica in Italia e nel mondo sulla guerra in corso e sul destino di quell’area in quattro posizioni: “Israele deve scomparire”; “La pace deve prevalere su qualsiasi altra esigenza”; “Israele è stato attaccato in modo disumano e ora conta una sola cosa: vincere”; “Non c’è posto per i palestinesi in Palestina”.
Senza entrare nei dettagli delle varie posizioni, mi sembra chiaro che solo della seconda e della terza posizione si può e si deve discutere in modo democratico, alla ricerca di una possibile soluzione che salvi migliaia di vite di palestinesi e israeliani, e consenta di riprendere il dialogo per giungere ad una soluzione basata su “due popoli e due Stati”, come sostengono in tanti, tra cui il governo italiano.
Le altre due posizioni invece configurano quello che sta diventando il nemico comune a tutte le democrazie: “le due T”, Terrorismo e Tirannia. È terrorismo quello dei fanatici islamisti e anche dei neonazisti antisemiti. È tirannia quella dei governi che non rispettano i diritti delle persone e dei popoli riconosciuti internazionalmente e anche quello dei coloni israeliani che vorrebbero scacciare o mantenere in sottomissione gli arabi della Cisgiordania.
Ma per vincere questo confronto è necessaria una grande coesione dei nostri popoli nelle nazioni democratiche. Purtroppo, sta avvenendo il contrario. Come segnalava Contu, le persone rifiutano di esaminare i fatti con l’oggettività, si radicalizzano su posizioni che non sono disposte a cambiare neppure di fronte all’evidenza della realtà, rendono sempre più difficile la guida politica. Massimo Gaggi, sul Corriere della Sera, ha scritto che una buona metà degli americani non crede che il regime democratico possa risolvere i problemi degli Stati Uniti, culla della democrazia. E questo, con tanti altri segnali, dovrebbe farci capire che qualcosa non va nel modo di educare, rappresentare e guidare questo e gli altri Paesi di quello che noi chiamiamo l’Occidente.
A mio parere questo è anche il cuore del libro di Enrico Giovannini “I ministri tecnici non esistono” uscito in questi giorni, perché racconta la sua esperienza alle Infrastrutture e mobilità sostenibili durante il governo Draghi e prima al Lavoro nel governo Letta. Ogni decisione politica deve tenere conto della necessità di costruire un futuro sostenibile, ma al tempo stesso deve ottenere il consenso dell’opinione pubblica perché altrimenti manca la forza per attuarla, come è emerso chiaramente nel dibattito di lunedì 23 all’Istituto Sturzo che abbiamo raccontato su FUTURAnetwork. Anche i meccanismi di governo devono essere ripensati per affrontare sfide epocali che saranno sempre più difficili da sconfiggere: lo ha sottolineato in un recente editoriale Flavia Belladonna. È ora di cominciare a ripensare il funzionamento della democrazia, a renderla più partecipata ed efficiente, a creare meccanismi che esprimano leadership più coraggiose e di visione, a investire in modo risoluto sulle istituzioni multilaterali se davvero vogliamo sconfiggere la tentazione distruttiva delle “due T”.