Editoriali
Il via libera alla direttiva sulla responsabilità delle aziende ribadisce un principio: il profitto non può calpestare salute e lavoro. Come renderlo concreto è un tema su cui l’ASviS si confronta da tempo. Ora nessun passo indietro.
Diverse notizie di questi giorni richiamano l’attenzione sui limiti e le distorsioni del nostro modello di sviluppo. Il 19 marzo l’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, ha diffuso un nuovo rapporto dal titolo “Profits and poverty: the economics of forced labour”, che stima i profitti generati dal lavoro forzato nel mondo. Questi guadagni, che sono in aumento del 37% rispetto al 2014, riflettono i salari effettivamente sottratti alle tasche delle lavoratrici e dei lavoratori dagli attori di questo giro d’affari attraverso le loro pratiche coercitive. Un'altra analisi, condotta dal Parlamento europeo, ha evidenziato gli impatti che l’industria tessile, e in particolare il fast fashion, sta avendo sull’ambiente. Alimentato dalle grandi catene di distribuzione, il settore dei capi prodotti in tempi veloci e a basso costo ha conseguenze enormi in termini di emissioni di gas serra, consumo di risorse naturali e inquinamento idrico.
Al centro di questi fatti c’è la mancata tutela dei lavoratori e dell’ambiente rispetto a un mercato globalizzato e a regole che si trasformano. Se alcune imprese chiedono un ambiente normativo semplificato, è chiaro però che la tutela dell’ambiente e della qualità del lavoro non può essere in discussione. Per questo servono una politica fiscale equa e una legislazione chiara e condivisa, anche per infondere fiducia in un Green Deal che altrimenti rischia di essere un’opzione praticata solo da chi vive nelle parti più fortunate del mondo.
L’Europa, anche se timidamente, ha battuto un colpo. Dopo settimane di incertezza, il 15 marzo gli Stati membri hanno finalmente votato a favore della direttiva sulla due diligence in materia di sostenibilità d’impresa (Csddd), che dovrà essere approvata dal Parlamento europeo. Tuttavia, gli oneri di maggior controllo sulla catena di fornitura sono stati concentrati sulle società di grandi dimensioni, con oltre mille dipendenti e 450 milioni di fatturato globale. Si tratta di soglie, e questo è un calcolo effettuato dal Wwf, che lasciano fuori dal campo di applicazione quasi il 70% delle imprese incluse nella bozza precedente.
I cambiamenti sono in gran parte attribuibili a Francia, Germania e Italia. Un tempo motore dell’integrazione europea insieme alla Francia, la Germania sta diventando sempre più un freno, con una coalizione divisa. Il governo italiano, attraverso una nota di Palazzo Chigi, ha assicurato che la direttiva “contribuirà a garantire che le catene di fornitura delle principali aziende europee siano quanto più rispettose possibile dei diritti umani e della sostenibilità ambientale” e parla di un “testo equilibrato ed efficace”. Niente di inaspettato, ma la sensazione è che qui la Csddd conti fino a un certo punto: la questione è quella di un certo scetticismo sulla transizione ecologica.
Nel mondo produttivo c’è chi ritiene che l’aggiunta di ulteriori obblighi di rendicontazione sia troppo oneroso per le aziende, in particolare le Pmi. Alcune associazioni imprenditoriali nei mesi scorsi hanno scritto a Bruxelles evidenziando una serie di problemi. In sostanza, ritengono che il rischio concreto sia di soffocare le imprese e di esporle a rischi che in realtà non sono in grado di gestire. Posizione diversa rispetto a quella espressa da 50 rappresentanti del mondo economico e della società civile, che hanno sottoscritto l’invito a far avanzare i lavori sulla due diligence. Ironia della sorte, attualmente proprio Francia e Germania hanno leggi nazionali sulla due diligence, i Paesi Bassi hanno adottato una norma sul lavoro minorile nel 2019 (anche se non è ancora in vigore) e proposte legislative in questo campo sono emerse in molti altri Paesi.
Da tempo l’ASviS si batte per dare concretezza a una direttiva europea sui diritti umani e ambientali, anche con eventi pubblici come quello organizzato qualche mese fa con WeWorld e Impresa 2030. La Csddd e la direttiva Ue sulla rendicontazione della sostenibilità (Csrd) sono due tasselli nel percorso delle aziende verso i criteri ambientali, sociali e di governance (Esg). Si tratta di regolamenti a cui dovranno seguire azioni e comportanti concreti. Ma è interesse di tutti che non si facciano passi indietro: per le aziende scegliere la sostenibilità non deve essere visto solo come un costo ma anche come un’opportunità. Finalmente con la direttiva sulla due diligence si introduce l’obbligo per le aziende extra-Ue di adeguarsi alle stesse regole di quelle europee, dunque la Csddd è uno strumento per difendere la competitività. “L’Italia deve decidere se vuole contribuire a una globalizzazione più giusta, più sostenibile sul piano ambientale, oppure se preferisce guardare da un’altra parte, rimangiandosi quello che con altri Paesi europei ha concordato a dicembre del 2023”, aveva detto Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’ASviS, nella puntata del 14 febbraio di Scegliere il futuro.
Del resto, l’obiettivo che non entrino in Europa prodotti generati calpestando diritti umani come salute o educazione in età infantile dovrebbe essere un punto di partenza condiviso. Come ha scritto Federico Fubini sul Corriere della sera, “Per le imprese sarà un lavoro di intelligence, in un certo senso. Ed un lavoro di controllo dei costi, perché per loro l’offerta di forniture a prezzi inverosimili e imbattibili deve far scattare campanelli d’allarme e verifiche sulle imprese a valle della filiera. Altrimenti, se emerge qualcosa di illegale, sarebbe la capofila a pagare”.
La Csddd votata pochi giorni fa è il migliore testo possibile? No, però è un significativo passo in avanti per ampliare i diritti. Il direttore generale dell'Unido, l’Organizzazione dell’Onu per lo sviluppo industriale, Gerd Müller, ha salutato l'accordo affermando: “Oggi l'Ue ha tracciato il percorso per una globalizzazione più giusta ed equa. Milioni di lavoratori nei Paesi in via di sviluppo beneficeranno di questa direttiva. Le aziende europee che operano a livello internazionale dovranno ora conformarsi a norme sociali e ambientali internazionali fondamentali”. Sulla stessa linea l’eurodeputata Laura Wolters, del Partito del lavoro olandese (PvdA), che ha seguito l’iter della norma: “L’approvazione della legge sulla responsabilità a catena da parte degli Stati membri è una vittoria per le persone e l’ambiente e una sconfitta per le lobby”.
Indipendentemente dalla Csddd, standard internazionali come i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani e le Linee guida dell’Ocse per le imprese multinazionali esistono già e vengono implementati da un numero crescente di aziende. Certo, c’è ancora molto da fare: studi recenti stimano che 160 milioni di bambini siano sfruttati nel lavoro minorile (ovvero uno su dieci su scala globale), un numero in aumento negli ultimi anni, soprattutto tra i bambini tra i 5 e gli 11 anni che lavorano in condizioni pericolose. L’Ilo stima che 18 milioni di persone siano sfruttate nel settore privato. Alcuni di questi casi sono stati oggetto di grande attenzione mediatica e hanno portato a cambiamenti significativi nei settori coinvolti.
Nel 2013, il crollo del Rana Plaza, un edificio industriale in Bangladesh che ospitava diverse fabbriche tessili, ha causato la morte di oltre 1.100 persone e il ferimento di migliaia di altre, puntando i fari sulle condizioni di lavoro nei Paesi in via di sviluppo. La Shell è stata oggetto di critiche per il suo coinvolgimento in episodi di violazioni dei diritti umani e danni ambientali in Nigeria. Nel mirino le forze di sicurezza privata di Shell e l’inquinamento ambientale causato dalle operazioni petrolifere della compagnia nella regione del Delta del Niger. E ancora: Apple è stata criticata per la situazione nelle fabbriche cinesi dei suoi fornitori, dove le persone erano soggette a turni impossibili e bassi salari. Le condizioni di lavoro precarie e la mancanza di diritti per i dipendenti sono un problema transnazionale. L’Europa ha lanciato un segnale, ora bisognerà monitorare attentamente l’attuazione della direttiva, con la speranza che venga adottata anche da altri Paesi impegnati nel raggiungimento degli Obiettivi dell’Agenda 2030.