Sviluppo sostenibile
Lo sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.

L'Agenda 2030 dell'Onu per lo sviluppo sostenibile
Il 25 settembre 2015, le Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, un piano di azione globale per le persone, il Pianeta e la prosperità.

Goal e Target: obiettivi e traguardi per il 2030
Ecco l'elenco dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals - SDGs) e dei 169 Target che li sostanziano, approvati dalle Nazioni Unite per i prossimi 15 anni.

Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile
Nata il 3 febbraio del 2016 per far crescere la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e per mobilitare la società italiana, i soggetti economici e sociali e le istituzioni allo scopo di realizzare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile.

Progetti e iniziative per orientare verso uno sviluppo sostenibile

Contatti: Responsabile Rapporti con i media - Niccolò Gori Sassoli.
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The Italian Alliance for Sustainable Development (ASviS), that brings together almost 300 member organizations among the civil society, aims to raise the awareness of the Italian society, economic stakeholders and institutions about the importance of the 2030 Agenda for Sustainable Development, and to mobilize them in order to pursue the Sustainable Development Goals (SDGs).
 

Editoriali

I valori dell’Occidente non sono più credibili se non si riducono le disuguaglianze

Le guerre in corso hanno rinsaldato i legami tra le nazioni del G7, ma hanno evidenziato la divaricazione dai Paesi emergenti. Per ricucire la tela dell’Agenda 2030 e del multilateralismo serve un’Europa con capacità di leadership.

venerdì 26 aprile 2024
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La linea del cambiamento di data passa nello stretto di Bering tra le due isole Diomede. Se a mezzogiorno dalla Grande Diomede, che appartiene alla Russia, si attraversano i quattro chilometri di gelido mare per approdare nella Piccola Diomede che fa parte dell’Alaska, si dovranno aggiornare gli orologi a poco dopo le tredici del giorno precedente.

Per i geografi, la linea del cambiamento di data segna il confine tra Occidente e Oriente. Dal punto di vista geopolitico però dovremmo spostarci di almeno tre fusi orari per includere anche il Giappone e la Corea del sud, se non l’Australia, perché per “Occidente” si intende l’insieme di Paesi ricchi, industrializzati, uniti da valori comuni. La scelta di rafforzare i legami di questa comunità nacque da un’idea del presidente francese Valéry Giscard d'Estaing, in collaborazione con il cancelliere tedesco Helmut Schmidt. Il primo G6, tra Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia e Giappone si riunì nel castello di Rambouillet, in Francia, dal 15 al 17 novembre 1975. L’anno dopo l’incontro fu esteso al Canada e nel 1998 alla Russia, quando si sperava che Mosca tendesse ad assimilarsi all’Occidente; ma queste speranze furono deluse e nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, la Russia fu espulsa e il G8 divenne definitivamente G7.

Il significato di questa unione si è però evoluto negli anni, così come l’importanza dell’altra grande alleanza dell’Occidente, di tipo militare: la Nato. Nel 2019, in una intervista all’Economist, il presidente francese Emmanuel Macron decretò la “morte cerebrale” della Nato: l’Europa si sentiva sempre più distante dagli Stati Uniti presieduti da Donald Trump. Ma le cose cambiarono radicalmente con l’invasione russa dell’Ucraina. La Nato fu rivitalizzata estendendosi anche a Svezia e Finlandia e si è tornati a parlare di Occidente come di un insieme di Paesi uniti da forti legami politici, economici e culturali. In questo anno di crisi e di presidenza italiana del G7, le riunioni urgenti convocate on line da Giorgia Meloni con gli altri leader sono un segno della riacquistata importanza di questa “comunità delle democrazie”.

L’invasione dell’Ucraina ha portato però a una constatazione allarmante, che denota una nuova situazione geopolitica: non solo la Cina, ma anche molti altri Paesi importanti non si sono mostrati disposti a seguire Stati Uniti ed Europa sulla strada delle sanzioni contro la Russia. Tra gli altri, Brasile, India e Sudafrica, membri con Russia e Cina del gruppo dei Brics che sta cercando di dotarsi di strutture alternative a quelle che considera dominate dall’Occidente, per esempio paralizzando la riforma del Fondo monetario internazionale (Fmi) per dare invece un ruolo crescente nell’aiuto ai Paesi in via di sviluppo alla New development bank controllata appunto dai Brics.

La guerra in Medioriente ha accentuato ulteriormente questo contrasto: anche i governi dei Paesi arabi più moderati hanno dovuto fare i conti con masse islamiste che proclamavano la volontà di cancellare Israele ed estendere la Palestina “dal Giordano al mare”, mentre sentimenti analoghi si sono diffusi anche tra i giovani dei Paesi occidentali. L’appoggio alla Palestina è andato aldilà delle giuste reazioni per gli accessi di Israele a Gaza, dimenticando la strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre. È tornata ad affermarsi una tendenza, sottolineata da molti commentatori, a mobilitarsi molto più facilmente per cause antiamericane e antioccidentali, che non per i misfatti di dittatori ed autocrati, dall’Iran alla stessa Russia. Per esempio, per il dissidente russo Aleksei Navalny o per il rapper iraniano Toomaj Salehi condannato a morte in questi giorni solo per i testi delle sue canzoni.

L’Occidente sta perdendo la sua partita? Il crollo dell’Urss nel 1991 sembrò segnare “la fine della storia” con l’affermarsi universale dei valori liberali, ma poi le cose non sono andate così. Del resto, se anche guardiamo alle vicende militari degli ultimi 80 anni, la storia segna continui arretramenti, dall’armistizio in Corea (con la nascita della Corea del Nord) al Vietnam, dall’Afghanistan alla cacciata dei soldati francesi dalle ex colonie del Sahel. E i Paesi dove si è cercato di intervenire per “portare la democrazia”, come in Libia e in Iraq, si sono trasformati in modo ben diverso dalle aspettative, con divisioni sanguinose e regimi interni poco favorevoli all’Occidente.

La crisi in corso riflette anche una divaricazione nella percezione delle priorità di vita. In un’inchiesta dell’agosto scorso, l’Economist ha segnalato che “i valori dell’Occidente stanno sistematicamente allontanandosi da quelli del resto del mondo”. L’articolo parte da questa premessa: nel 1981 il 40% della popolazione mondiale viveva in condizioni di povertà estrema; quarant’anni dopo, questa percentuale si è ridotta all’8%. Si riteneva che con la crescente ricchezza si verificasse una convergenza verso i valori dei Paesi più avanzati, identificati nel secolarismo (prevalenza della fiducia nella scienza rispetto alle fonti tradizionali del sapere) e nella capacità di autoaffermazione rispetto alla ricerca di protezione all’interno della propria comunità. Invece questo non sta avvenendo. L’analisi si basa sul World values survey (Wvs), “la più grande indagine sociale del mondo” nata su iniziativa del sociologo Ronald Inglehart dell’Università del Michigan, scomparso nel 2021.

Ogni cinque anni circa, i ricercatori scendono in campo per intervistare, secondo l’ultimo conteggio, quasi 130mila persone in 90 Paesi, ma l’ultima ondata di risultati, che copre il periodo 2017-2022, non ha confermato se non in parte l’idea che i valori di base tendono a convergere quando la gente diventa più ricca. In modi significativi, le differenze di comportamenti della gente nelle diverse parti del mondo sembrano aumentare.

Il principale risultato dell’indagine colloca le nazioni, in base alle risposte prevalenti, su un asse cartesiano secondo le due scale di valori precedentemente citate. Da un’indagine all’altra si nota un concentrarsi dei Paesi in due insiemi: in alto a destra (fiducia nella scienza e nelle capacità individuali) i Paesi occidentali più ricchi; in basso a sinistra gran parte degli altri, dove prevale invece l’obbedienza all’autorità religiosa e politica e la fiducia nella protezione offerta dal clan o dalla comunità, con diffidenza verso il “diverso”, che si tratti di uno straniero, di un omosessuale o di un appartenente a un’altra minoranza.

Che significa tutto questo in termini di “valori universali”? La Wvs implica che i valori secolari e liberali non sono più “universali” dei valori religiosi e di soggezione all’autoritarismo. Questi due sistemi di valore si collocano ai poli opposti dello stesso spettro di opinioni ed entrambi esprimono le modalità nelle quali la gente si adatta alle circostanze, sicure o insicure che siano.

L’accentuarsi delle contrapposizioni geopolitiche mette a repentaglio tutta la costruzione internazionale basata sul multilateralismo. Nonostante gli sforzi del segretario dell’Onu António Guterres che spera di far ragionare i leader mondiali nel Summit del futuro previsto per settembre, sembra difficile ottenere un impegno concreto sia per perseguire efficacemente gli Obiettivi dell’Agenda 2030 (che richiederebbero un notevole esborso finanziario verso i Paesi in via di sviluppo, come Guterres non si stanca di ricordare), sia per avviare un processo di revisione concertata di obiettivi comuni per i prossimi decenni.

Certamente dobbiamo abituarci a fare i conti con un equilibrio diverso, perché i prossimi anni non saranno più caratterizzati dalla prevalenza dell’Occidente politico. Tuttavia è difficile pensare che la tela del multilateralismo, indispensabile per costruire un mondo pacifico e sostenibile, possa essere riannodata senza una convergenza di valori fondamentali. Il tema è complesso e non ho alcuna pretesa di fornire una ricetta completa, ma vorrei suggerire alcuni spunti di riflessione.

Innanzitutto, penso che l’Occidente dovrebbe riesaminare il modello economico che ha proposto al resto del mondo. La globalizzazione e la finanziarizzazione senza confini hanno migliorato il tenore di vita di miliardi di persone, tanto che oggi si stima che quasi la metà della popolazione mondiale possa essere considerata “classe media”. Sono però cresciute le disuguaglianze tra i Paesi e all’interno di essi. Se anche la povertà estrema si è ridotta, varie forme di deprivazione affliggono l’altra metà del mondo e cancellano le speranze di miglioramento.

C’è un calcolo che a mio avviso è illuminante. Sappiamo che il prodotto interno lordo (Pil) non è più una misura adeguata del benessere collettivo, ma sappiamo anche che senza un reddito adeguato non può esserci benessere. Secondo i dati del Fondo monetario, il Pil mondiale nel 2024 ammonterà a quasi 110mila miliardi di dollari, al cambio attuale un po’ più di 100mila miliardi di euro. Se dividiamo questa cifra per la popolazione complessiva (otto miliardi) otteniamo un Pil pro capite di circa 12mila euro. Anche aggiustando questa stima per tenere conto degli effettivi poteri di acquisto delle diverse monete, si può arrivare alla conclusione che la ricchezza che si produce annualmente nel mondo, se distribuita con più equità, sarebbe sufficiente per garantire una vita “decente” per tutti. Ma siamo ben lontani da politiche orientate in questa direzione. Anche se si tratta dello stesso modello adottato dalle nuove borghesie dei Paesi emergenti, il nostro modo di vivere e di consumare è considerato cieco ed egoista da chi ne è escluso. E questa divaricazione potrebbe accentuarsi nei prossimi anni, anche per effetto della crisi climatica e di una competizione sempre più aspra per accaparrarsi le limitate risorse del pianeta.

La seconda considerazione che vorrei proporre è che gli Stati Uniti non possono più essere considerati il portabandiera dei valori in cui crediamo. Sul Corriere della Sera Federico Rampini ha presentato un quadro a tinte fosche della situazione americana, sottolineando tra l’altro che “l’epicentro della contestazione si trova in atenei da settantamila dollari di retta annua”. Una situazione che può indurre i più poveri, anche se neri o ispanici, a votare per Donald Trump, come accadde nel 1968, quando le manifestazioni per il Vietnam finirono col favorire la vittoria del repubblicano Richard Nixon. Ma anche se questo timore non si avverasse, l’America di oggi appare come una nazione stanca e divisa, che non a caso esprime film come “Civil war”, capace ancora (per ora) di un grande sforzo militare a sostegno degli alleati ma priva di leadership globale. L’Europa avrebbe una grande occasione per riempire questo vuoto, non solo come “campionessa dello sviluppo sostenibile”, come l’ASviS auspica da sempre, ma anche per allacciare un dialogo più costruttivo con il resto del mondo. Il presupposto però sarebbe una maggiore unità e capacità di decisione. Nell’incontro di alto livello di La Hulpe, gli italiani Mario Draghi, Enrico Letta ed Enrico Giovannini hanno delineato il percorso per il rafforzamento dell’Unione europea e una sua maggiore presenza sulla scena mondiale. Ma tutto è affidato al responso dei popoli del nostro continente nelle prossime elezioni.

Infine, una riflessione che riguarda i giovani. L’Economist (ho citato spesso questo giornale, che mi sembra particolarmente riflessivo sui temi di tendenza) ha pubblicato due articoli sugli zoomers, la generazione dei nati dal 1998 al 2012. Il quadro che traccia coincide solo in parte con la situazione italiana ma è molto interessante. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, i giovani hanno un alto tasso di occupazione, guadagnano più delle generazioni precedenti alla stessa età, scelgono prevalentemente facoltà scientifiche e tecnologiche e possono permettersi un diverso atteggiamento nei confronti del lavoro perché sanno che le occasioni comunque non mancano. Anche la considerazione diffusa nei Paesi più ricchi che la nuova generazione avrà una vita peggiore di quella dei genitori viene ridimensionata.

Questa narrativa trascura un fatto importante: circa quattro quinti dei giovani dai 12 ai 27 anni vive in Paesi in via di sviluppo. Grazie alla crescita e alla diffusione delle tecnologie, i ragazzi in posti come Giacarta, Mumbai o Nairobi stanno molto meglio di come stavano i loro genitori, sono più ricchi, più sani e più istruiti; quelli che dispongono di uno smartphone sono più informati e connessi. Non c’è da stupirsi che in un’indagine dell’Onu del 2021, i giovani dei Paesi emergenti erano più ottimisti rispetto ai loro coetanei dei Paesi ricchi.

La rivista britannica aggiunge che la generazione Z è più sensibile ai temi riguardanti la crisi climatica e che questo potrà avere un impatto sugli equilibri politici del futuro, ma mano che gli zoomers raggiungeranno l’età del voto. La nuova generazione, sicura di sé, irriverente (la copertina della rivista mostra un adolescente con l’apparecchio dentale e la lingua fuori) e sensibile a valori universali potrebbe essere una leva importante per accelerare il cambiamento.

Insomma, siamo di fronte a un quadro geopolitico complesso, con forti divaricazioni tra i Paesi e all’interno di essi, senza un’effettiva capacità di leadership per affermare un nuovo ordine mondiale basato sulla democrazia, il rispetto dei diritti e dei bisogni di tutti, compatibile con i limiti del pianeta. Abbiamo bisogno di idee nuove, coraggio politico e attenzione ai giovani: un programma difficile, ma la posta in gioco è molto alta e la partita si gioca in questi anni cruciali.

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