Editoriali
L’AI, la sfiducia nei media e la stanchezza da notizie stanno cambiando il modo in cui ci informiamo. L’analfabetismo digitale è una minaccia tanto grave quanto lo è stato quello funzionale: servono educazione e cultura, non solo nuovi strumenti tecnologici.
Quando vent’anni fa si discuteva del futuro dell’informazione, spesso veniva tirata in ballo la fine del quotidiano di carta. Nel 2007 il bel saggio di Vittorio Sabadin L’ultima copia del New York Times riportava la profezia di Philip Meyer, studioso dell’editoria americana, secondo cui la fatidica data sarebbe scattata nel 2043. In un modo o nell’altro, i giornali resistono, ma il “dopo” è arrivato già da un pezzo. Oltre alla transizione tra carta e web, l’informazione ha dovuto affrontare altri passaggi congiunturali e strategici: dalla competizione di piattaforme che si occupano di contenuti, ma con una limitata attenzione per il metodo giornalistico, all’intelligenza artificiale generativa che non si limita a suggerire link, ma elabora sintesi, esprime opinioni, “costruisce senso”. I chatbot stanno sostituendo anche le ricerche su Google, offrendo riepiloghi in cima alla pagina che eliminano la necessità di cliccare sui singoli siti. “L’Armageddon dell’intelligenza artificiale è arrivato”, ha scritto a giugno il Wall Street Journal. E mentre editori e aziende provano ad adattarsi – l’AIO (AI Optimization) sta già sostituendo la SEO tradizionale – i giganti continuano a riscrivere le regole del gioco. Due giorni fa Google ha lanciato la sua nuova AI Mode, per ora disponibile solo negli Stati Uniti e in India, che promette un’esperienza di ricerca ancora più avanzata basata sull’AI. Lo slogan è chiaro: “Cerca come mai prima d'ora”.
Il digitale ha, per molti versi, democratizzato i media: l'informazione è spesso gratuita e sempre a portata di mano. Se però le notizie, nell’ecosistema attuale, sono commodities, ovvero prodotti di cui vi è abbondanza di offerta rispetto alla richiesta, senza più un valore economico intrinseco, a poco serve rimpiangere i vecchi, e sempre più obsoleti, modelli dell’industria delle notizie. Conviene invece interrogarci se siamo preparati – culturalmente, tecnicamente e sul piano etico – a recuperare gli elementi che danno sostanza a un’informazione autorevole indipendente: fiducia dei lettori e centralità nel dibattito pubblico.
La prima questione è il comportamento stesso del pubblico. In una recente puntata della trasmissione “Media e dintorni” di Radio Radicale, si è discusso dei risultati di un ampio sondaggio del Reuters Institute, che ha coinvolto 100mila persone in 48 Paesi. I dati confermano ciò che molti osservatori già sospettavano: il 40% di coloro che hanno abbandonato la visione dei telegiornali ha dichiarato che essi hanno un impatto negativo sul proprio umore. Un altro 30% o poco più si dice esausto dalla quantità eccessiva di informazioni. Sempre un 30% ritiene che le notizie dei Tg trattino eccessivamente di guerre, conflitti e politica. E colpisce il dato riferito agli under 35: una parte consistente di loro afferma che le news siano troppo difficili da comprendere.
È quel che stiamo vivendo da una parte all’altra dell’oceano, con i media tradizionali come tv, carta stampata e siti web di notizie che hanno sempre meno interazioni, mentre cresce la dipendenza da social media, piattaforme video e aggregatori online. Non senza paradossi: secondo la Reuters TikTok è il social network in più rapida crescita, con un aumento di quattro punti percentuali nei mercati globali delle notizie, ma allo stesso tempo i suoi utenti lo considerano il più pericoloso in termini di informazioni false o fuorvianti. Al secondo posto c’è Facebook, da tempo fonte di diffusa preoccupazione per le fake news.
In questo ecosistema alternativo, polarizzato e a volte confuso, la fonte giornalistica è “spersonalizzata”, spesso priva di valore e rilevanza. E si affermano influencer e creatori di contenuti sui social media, che ottengono ottima visibilità, soprattutto tra il pubblico più giovane, per la qualità dei contenuti e perché più bravi ad adattarsi alle logiche degli algoritmi.
Ma questa crisi che è, per i media tradizionali, di fiducia e di rilevanza deve fare i conti anche con la “news fatique” dei lettori, l’affaticamento dovuto all’esposizione costante a notizie negative. Un fenomeno che non è nuovo, ma che secondo la Reuters rappresenta una delle sfide principali per il giornalismo contemporaneo. E che rischia di diventare strutturale, se non si individuano strumenti efficaci per raggiungere pubblici diversi. Come reagire, allora?
Il Rapporto Eco Media, promosso dall’omonimo Osservatorio curato dal Pentapolis Institute e diffuso pochi giorni, fa suggerisce una riflessione urgente anche per chi si occupa di sostenibilità, perché un’informazione debole su questi temi rallenta la capacità di coinvolgimento della società civile. Serve una narrazione più trasversale, che leghi la sostenibilità a economia, salute, giustizia sociale. E soprattutto c’è la necessità di andare oltre la logica dell’emergenza. Nel 2024 la categoria “crisi”, che include termini come crisi ambientale, crisi climatica, inquinamento e riscaldamento globale, ha raccolto oltre un milione di citazioni, risultando la più trattata dai media (stampa, TV, radio, web e social). Seguono, con numeri consistenti, economia ed economia circolare (811mila), biodiversità (667mila), risorse naturali (639mila), energia (630mila), istituzioni e società (357mila) e trasporti (187mila).
In questo quadro l’intelligenza artificiale ha e avrà un ruolo sempre più centrale. Il dibattito pubblico si è finora concentrato soprattutto sugli errori: bias, allucinazioni, imprecisioni. Ma questa visione, pur necessaria, rischia di essere riduttiva. Come ha osservato Pietro Speroni di Fenizio nel suo blog AI Visions su FUTURAnetwork,
Quando mi arriva l'ennesimo post cospirazionista, invece di ignorarlo o perdere mezz'ora a scrivere una confutazione ragionata, faccio una cosa semplice: lo copio e lo incollo a una delle AI disponibili (…). Chiedo semplicemente di fare il fact-checking del contenuto. L'intelligenza artificiale non solo smaschera le bugie con precisione chirurgica, ma per ogni affermazione falsa fornisce una bibliografia ragionata, indicando dove quella particolare disinformazione è stata già confutata e perché.
È un principio che apre a una prospettiva interessante: utilizzare più intelligenze artificiali in modo incrociato, per verificare, confrontare, contestualizzare le informazioni. Oggi, in molte piattaforme, c’è anche l’obbligo di indicare le fonti. È un passo avanti, sebbene ancora imperfetto. Significa che si può arrivare a una qualche forma di responsabilità digitale: chi risponde deve mostrare da dove trae le sue affermazioni. Ma serve vigilanza, alfabetizzazione, senso critico. Anche in Italia, su cui l’analfabetismo digitale pende come una spada di Damocle. Come ha affermato recentemente Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali,
il deficit di competenze digitali degli italiani rischia di trasformare l’intelligenza artificiale da opportunità in minaccia (…) Se non si inverte immediatamente la tendenza, se non si rivedono di corsa piani e programmi, se non si fa un’inversione a “U” nelle priorità, se non si dichiara all’analfabetismo digitale una vera, convinta e urgente guerra come quella che dichiarammo all’analfabetismo funzionale nel secondo dopoguerra, a prescindere da come andranno le cose in giro per il mondo, in Italia, l’intelligenza artificiale non produrrà certamente i benefici sperati e far finta di non saperlo e di non rendersene conto è ipocrita e incosciente a qualsiasi livello.
Una responsabilità, oltre che una sfida, che ricade sui sistemi educativi. Nel corso di un webinar Pier Cesare Rivoltella, ordinario di Didattica e Tecnologie dell'educazione presso l'Università di Bologna, ha avvertito che
la scuola dovrebbe sforzarsi di sviluppare cultura del digitale. La tecnologia non è neutra, viene sempre progettata su base intenzionale, ma non contiene in sé solo la destinazione per la quale è stata progettata. Ci sono degli insegnanti che vanno accompagnati nello sviluppo professionale anche nell’ambito del digitale. Considerando il digitale qualcosa di trasversale alle diverse competenze disciplinari, e non come un accessorio da inserire a seconda dei casi.
È chiaro che servirà capire anche come informare le diverse generazioni. Abbiamo visto che i giovani, fino ai 30- 35 anni, si informano prevalentemente attraverso i social media. Gli adulti, invece, mantengono un rapporto più diretto con siti e media tradizionali. C’è bisogno dunque di strategie diversificate, ma con un obiettivo comune: evitare sia la banalizzazione del linguaggio, sia l’eccessiva complessità. Una democrazia si nutre di un’informazione qualificata e si fonda su cittadini che capiscono, che partecipano, che sanno dove trovare informazioni attendibili.
Durante la riunione della Consulta dell’ASviS del 2 luglio, il presidente Pierluigi Stefanini ha sottolineato un punto cruciale per il lavoro dell’Alleanza:
Dobbiamo rafforzare il nostro impegno nel mondo della cultura e dell’arte. Abbiamo già realizzato molte attività importanti, ma possiamo investire di più e meglio. È attraverso la cultura che passa la possibilità di trasformare davvero il nostro Paese.
Adeguarsi alla trasformazione dell’informazione non significa inseguire ogni novità tecnologica. Significa saper riconoscere le direzioni del cambiamento e costruire risposte culturali, educative, politiche. La sfida, dunque, non è capire cosa ci diranno le AI di domani. Ma se sapremo ancora riconoscere una buona informazione quando ce l’avremo davanti.
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