Rubrica: Voci dal territorio
Buone pratiche: con il Parco delle Stagioni rinasce un luogo per la comunità
A Costabissara (VI), una villa chiusa per 50 anni è tornata a vivere grazie a un’impresa sociale che unisce lavoro inclusivo, artigianalità, agricoltura e cura del territorio. Sara Rigon ci racconta del progetto collettivo. 10/12/25
Entrare oggi nel Parco delle Stagioni significa camminare dentro una storia riconquistata. Villa Donà, rimasta vuota per decenni e inghiottita dalla vegetazione, è stata riaperta nel marzo 2025, trasformandosi da residenza privata chiusa al territorio a casa condivisa, aperta, vissuta e operativa. “Era una villa decadente, abbandonata da 50 anni. Vederla rinascere è stata un’emozione anche per i cittadini, che passavano ogni giorno a chiedere cosa stesse succedendo, partecipando con grande curiosità e con sentimenti diversi a questo riconquista territoriale,” racconta Sara Rigon, cofondatrice e anima del progetto.
Il rapporto con la villa non è mai stato neutro: alla naturale appartenenza affettiva del quartiere si è sempre intrecciata una memoria complessa. I Donà erano una famiglia dell’antica aristocrazia veneziana, proprietaria di terre e investimenti agricoli gestiti da mezzadri. Una nobiltà percepita come distante e poco incline al rapporto con il territorio, che nel tempo ha alimentato un sentimento misto di rispetto e diffidenza. Eppure, proprio quel parco abbandonato era diventato, negli anni, un luogo di incursioni proibite: ragazzi e ragazze scavalcavano i cancelli per entrarci, pur sapendo che non si sarebbe potuto. La villa era pericolante, il parco in rovina, ma quel gesto raccontava un bisogno di spazio, di gioco, di libertà. “Restituirlo alla comunità significa allora molto più che completare un restauro: è sciogliere una storia sospesa, rimettere in relazione un luogo e la sua gente.”
La nascita dell’impresa sociale e l’incontro che ha acceso il progetto
L’idea nasce nel 2020, l’immobiliare familiare individua la villa come bene da valorizzare. La parte più giovane della famiglia, Sara e i suoi due cugini, Nicola Frazza e Alessandro Trentin, decidono di trasformarla nella sede di un progetto sociale radicato nel territorio. “L’incontro con Rabee, il sarto, è stata la scintilla che ci ha fatto partire. La nostra impresa sociale non era ancora operativa: siamo partiti dalla sartoria, ospitata in un’altra sede finché i lavori non fossero conclusi”, spiega Sara.
Nel 2025 la sartoria si trasferisce nella barchessa, l’antico edificio rurale di servizio della villa, restaurato e riaperto alla comunità. Da lì l’ecosistema si amplia: il bistrot, il catering per gli eventi, i mercati stagionali, i corsi artigianali che aiutano a creare e consolidare professioni nel territorio, le attività per i bambini, l’orto e il noccioleto. Micro-economie che si alimentano reciprocamente, generando lavoro, competenze e occasioni di incontro.
L’impresa sociale assume almeno il 30% di persone con svantaggio: rifugiati, donne che rientrano nel mercato del lavoro, giovani Neet, persone con fragilità fisiche o mentali. “Siamo un gruppo eterogeneo che si sostiene per raggiungere un equilibrio economico. Se non fatturiamo, si torna tutti a casa: è un progetto molto concreto, non romantico”, sottolinea Sara.
Dalla sartoria al bistrot: la bellezza come lavoro e relazione
La sartoria è il cuore originario del Parco: produce pezzi unici utilizzando soltanto tessuti di recupero, fondi di magazzino, scampoli e materiali test. È un laboratorio sociale e, insieme, un luogo di formazione: corsi con Confartigianato, laboratori di upcycling, workshop che intrecciano tecnica, cultura della slow fashion e condivisione. Qui si riscopre il valore del riuso e del riciclo, unito all’unicità di un capo pensato, speciale e irripetibile, in netto contrasto con l’immensa replicabilità della fast fashion.

Con la riapertura della villa è arrivato anche il bistrot, che serve colazioni e pranzi e diventa la porta d’accesso al progetto. La cucina cura anche il catering degli eventi ospitati nella villa, aprendo nuove possibilità di lavoro. “La dimensione del luogo è una dimensione del cuore: fin dall’inizio è stato un catalizzatore di persone, un posto e un argomento comune per ritrovare cultura e storia, comunità e condivisione e, perché no, anche il piacere del cibo genuino e della convivialità”, commenta Sara.
Gli spazi interni sono pensati per riunire e ritrovarsi, per far stare insieme: un grande bancone comune, stanze aperte, luce naturale, materiali originali recuperati. Una scelta conservativa che ha salvato tutto ciò che era possibile, rispettando struttura e identità del luogo. Un modo per far sì che la bellezza originaria continui a generare relazione.
Il territorio che si riconosce e si riappropria della sua storia
Uno degli aspetti più significativi è proprio la partecipazione dei cittadini. “Fin dai primi mesi, le persone della zona hanno seguito i lavori, portato ricordi, consigliato come gestire il verde, chiesto aggiornamenti. Si son sentiti parte del progetto, perché quel luogo appartiene anche a loro, sicuramente più di un tempo”. Oggi questo legame è ancora più evidente.
Il Parco ospita mercatini, corsi di ceramica, attività e laboratori per i bambine e bambini, collaborazioni con le scuole, visite all’orto e al noccioleto piantumato cinque anni fa e ancora in evoluzione. “Le scuole utilizzano il parco come vero spazio di esplorazione e apprendimento: un luogo dove i bambini imparano a osservare, coltivare, riconoscere la terra e le stagioni, e dove si incontrano generazioni diverse attorno ai gesti semplici della cura.” L’orto diventa così un laboratorio di relazione, un esercizio di attenzione e un modo per riannodare i fili tra natura, comunità e futuro.
“La nostra missione è ritrovarsi: condividere tempo, lavoro, competenze. Riscoprire un luogo e farlo diventare di tutte e tutti”, sintetizza Sara.
È questo intreccio fra storia, lavoro, inclusione e appartenenza che rende il progetto una buona pratica territoriale. Nel Parco delle Stagioni, il passato non è un’eredità immobile, ma un seme che germoglia di nuovo, custodito da una comunità che ha scelto di riconnettersi al proprio luogo.
