Sviluppo sostenibile
Lo sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.

L'Agenda 2030 dell'Onu per lo sviluppo sostenibile
Il 25 settembre 2015, le Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, un piano di azione globale per le persone, il Pianeta e la prosperità.

Goal e Target: obiettivi e traguardi per il 2030
Ecco l'elenco dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals - SDGs) e dei 169 Target che li sostanziano, approvati dalle Nazioni Unite per i prossimi 15 anni.

Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile
Nata il 3 febbraio del 2016 per far crescere la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e per mobilitare la società italiana, i soggetti economici e sociali e le istituzioni allo scopo di realizzare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile.

Progetti e iniziative per orientare verso uno sviluppo sostenibile

Contatti: Responsabile Rapporti con i media - Niccolò Gori Sassoli.
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The Italian Alliance for Sustainable Development (ASviS), that brings together almost 300 member organizations among the civil society, aims to raise the awareness of the Italian society, economic stakeholders and institutions about the importance of the 2030 Agenda for Sustainable Development, and to mobilize them in order to pursue the Sustainable Development Goals (SDGs).
 

Editoriali

Sul clima l’Onu ha fatto quel che poteva, adesso tocca alla società civile

I risultati della Cop 26 sono nella logica delle grandi riunioni internazionali e non vanno disprezzati. Ma Glasgow ha anche segnato un salto di qualità nella presa di coscienza della crisi, stimolando le azioni “dal basso”.

di Donato Speroni

Abbiamo di fronte a noi un cambiamento molto importante, paragonabile all’avvento della rivoluzione industriale. Se riusciremo a farlo, sarà nei libri di storia. Altrimenti, non ci sarà più una storia.

Intervenendo ad “Alta sostenibilità”, la trasmissione dell’ASviS su Radio radicale, il coordinatore del gruppo di lavoro dell’Alleanza su energia e clima (Goal 7 e 13) Toni Federico ha ben evidenziato la sfida che abbiamo di fronte. La Cop 26 di Glasgow, terminata sabato 13, non ha corrisposto a tutte le aspettative, ma ha certamente segnato un cambio di passo nella lotta alla crisi climatica; non soltanto da parte dei governi, ma anche dell’opinione pubblica, della società civile, delle imprese.

I risultati politici del vertice non sono da disprezzare, come ha evidenziato la sintesi di Ivan Manzo sul sito dell’ASviS. Era difficile aspettarsi di più da un incontro dell’Onu, spiega lo stesso Federico:

La Cop ha dato quello che poteva dare. Bisogna comprendere il meccanismo delle Nazioni Unite. Quando ci si presenta a duecento Paesi chiedendo l'accordo di tutti e duecento, il meglio che può succedere, come ha detto il segretario dell’Onu António Guterres, è di raggiungere il minimo comune denominatore delle posizioni di tutti. E questo minimo comune denominatore non è mica male. Bisogna fare attenzione, perché la delusione viene monetizzata, nel senso che, se si dice che è un fallimento, poi ci si nasconde dietro questo senso di fallimento per dire che tanto non si può fare niente. Invece la realtà di Glasgow è proprio l’opposto: si è visto che la guida del movimento contro il cambiamento climatico è ormai fuori da quel tipo di istanze, è nella società civile, nei ragazzi che protestano, ma anche nel sistema industriale che comincia a comprendere che l’evoluzione dell’economia mondiale passa da lì. 

Questo non significa che nella lotta alla crisi climatica la politica non sarà più importante, ma che la spinta per assumere impegni più stringenti dovrà venire dal basso, da tutte le organizzazioni pronte a mobilitarsi su questi temi. Vale innanzitutto per l’Italia e per l’Europa.

In Italia, il Piano di transizione ecologica presentato dal governo il 2 agosto (e la cui discussione parlamentare procede a rilento, ma ha visto anche una audizione di Luigi Di Marco per l’ASviS ) prevede che entro il 2030 si copra con fonti rinnovabili il 72% del fabbisogno di energia elettrica: un quantitativo imponente, perché si tende a una maggiore elettrificazione dei consumi energetici, dalle auto elettriche ai fornelli a induzione al posto del gas per cucinare. Come il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha più volte sottolineato, si stima che sarà necessario aumentare la produzione di sette gigawatt all’anno, praticamente tutto da fotovoltaico ed eolico. In realtà in Italia esiste una grande quantità di progetti, grandi e piccoli, per la realizzazione di impianti di rinnovabili. Ma non tutti questi progetti sono limpidi (soprattutto sull’eolico nel Mezzogiorno si è assistito a una corsa all’accaparramento degli incentivi) e anche alcuni impianti che sarebbero già pronti e solo da allacciare sono bloccati dalle resistenze dei comuni o da altre difficoltà burocratiche. Come abbiamo già scritto, la questione non si risolverà senza un grande impegno promosso dal capo del governo Mario Draghi per la sburocratizzazione e il superamento di tante resistenze. Anche le preoccupazioni per il paesaggio possono essere giustificate, ma devono essere inquadrate in regole comuni per l’intero territorio nazionale che tengano conto dell’emergenza che dobbiamo affrontare.

L’Italia deve anche avere più coraggio nel sostenere la transizione energetica dei Paesi più deboli e più esposti, che dovrebbero ricevere il contributo complessivo di 100 miliardi di dollari all’anno da parte dei Paesi ricchi: quel Green climate fund del quale si favoleggia da anni, ma che non è ancora operativo, né nei tempi né nelle modalità di erogazione. Lo scarso apporto a questo Fondo (e in generale lo scarso interesse per la lotta al cambiamento climatico) furono le ragioni che indussero il governo giallo-verde di Giuseppe Conte e Matteo Salvini, quando nel 2019 si cominciò a parlare di assegnare all’Italia la presidenza della Cop 26, a preferire una co-presidenza più defilata, lasciando al Regno unito l’incombenza di organizzare l’incontro a Glasgow.

Ora però i tempi sono cambiati e l’Italia deve dar prova di contribuire allo sforzo comune. È evidente che per un Paese come il nostro, con un elevato debito pubblico e ancora convalescente dalla grave crisi economica provocata dalla pandemia, non è facile aumentare l’aiuto pubblico allo sviluppo. Ma i partiti dovrebbero capire che si tratta di una priorità, nel contesto di un maggiore impegno europeo.

Il ruolo dell’Europa è cruciale. È vero che il continente incide per meno di un decimo delle emissioni mondiali, ma può avere un grande potere di trascinamento sotto varie forme, al di là dell’impegno già dichiarato dalla Commissione di Ursula von der Leyen di neutralizzare le emissioni entro il 2050. Nell’Unione ci sono le potenzialità per un grande salto tecnologico nella lotta alla crisi climatica. Ricordiamo che gli impegni di abbattimento dell’aumento della temperatura a 1,5, massimo 2 gradi, sono anche affidati a soluzioni tecnologiche che ancora non esistono. Mentre in passato l’Europa ha lasciato alla Cina un quasi monopolio sui pannelli fotovoltaici, sulle nuove soluzioni green è necessario riprendere la leadership, con una ricaduta certamente positiva sulle imprese che entreranno per prime in questi business.

L’Europa inoltre può esercitare una grande influenza anche attraverso la gestione delle sue importazioni. Se effettivamente si applicasse un dazio all’entrata nella Unione delle merci in ragione della quantità di carbonio con le quali sono state prodotte, si stimolerebbe la transizione ecologica dei Paesi più reticenti, come Cina, India, ma anche Australia. Si tratta di una forma di carbon tax di non facile applicazione, anche tecnicamente, ma se ne parla da tempo e sarebbe il caso di provare ad attuarla sviluppando gli impegni assunti in Ue nel pacchetto “Fit for 55”.

Anche le imprese, come ha detto Toni Federico, stanno prendendo coscienza dell’entità della posta in gioco: la sostenibilità non è solo uno slogan da usare in pubblicità, magari con abbondanza di greenwashing, ma è al tempo stesso la modalità di sopravvivenza e una opportunità di sviluppo. Il driver di questa evoluzione è la finanza verde: la tassonomia della Commissione europea, per definire quali investimenti sono davvero utili alla lotta contro la crisi climatica, è tuttora un work in progress, ma ha certamente un ruolo molto importante.

Quando però si parla di un movimento “dal basso” è chiaro che non ci si riferisce solo alle pressioni sulla politica e alle scelte delle imprese, ma anche ai comportamenti di tutti noi, cioè a come rendere le nostre abitudini di consumo più compatibili con la necessità di combattere la crisi climatica. Nel tempo sono emerse molte indicazioni: mangiare meno carne, prendere meno aerei, preferire il trasporto collettivo, isolare meglio le nostre case per ottenere un risparmio energetico, evitare consumi inutili e comunque scegliere i prodotti dell’economia circolare predisposti per poter essere riciclati. Si tratta di indicazioni importanti, ma che non sono entrate ancora, se non in parte, nella coscienza collettiva. Rispondere a questi imperativi e magari sistematizzarli in una visione più organica non serve soltanto a combattere la crisi climatica (obiettivo certamente importantissimo), ma anche a rispondere alla domanda forse più rilevante dei prossimi decenni: con quale modello economico l’umanità riuscirà a far convivere oltre nove miliardi di persone garantendo a tutti consumi adeguati per “non lasciare nessuno indietro”? Per Jeff Bezos, il fondatore di Amazon e dell’impresa spaziale Blue Origin, l’equazione è impossibile: l’umanità dovrà trasferirsi su altri pianeti e visitare la Terra “come si visita il parco dello Yellowstone”. Gli scenari futuri sono sempre più d’uno e certamente questo non è il più gradevole. Speriamo che ci sia un altro modo di garantire una vita “decente” a tutta l’umanità e al tempo stesso preservare la bellezza del Pianeta e della sua biodiversità.

venerdì 19 novembre 2021

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