Editoriali
Dal 30 novembre si discuterà di riduzione delle emissioni gas serra, di combustibili fossili e di come finanziare i danni della crisi climatica. Le proposte ASviS per mettere l’Italia al passo dell’Accordo di Parigi.
di Ivan Manzo
Qualche giorno fa l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha rilasciato il suo annuale World energy outlook, lo studio più atteso e influente sul panorama del mercato energetico globale. L’Iea, al contrario di quanto fatto in passato, negli ultimi lavori sta dando sempre più credito al ruolo che il settore rinnovabile giocherà nei prossimi anni tanto da stimare che, entro il 2030, alimenterà la metà dell’elettricità globale. Di particolare rilievo anche la previsione del picco delle emissioni derivanti dal settore dei combustibili fossili in questo decennio: entro il 2025 la domanda di energia soddisfatta da fonti inquinanti dovrebbe iniziare a calare. Eppure tutto ciò non basta. L’analisi ricorda che pur confermando tale traiettoria, evento più unico che raro se guardiamo alla storia del mercato energetico e alle “promesse” infrante degli Stati, saremo ancora lontani da quanto stabilito con l’Accordo di Parigi, cioè limitare l’aumento medio della temperatura al di sotto dei 2° centigradi rispetto al periodo preindustriale, facendo il possibile per restare al di sotto di 1,5°C.
Sono nato nel 1986, quando la concentrazione di CO2 in atmosfera, misura che fornisce il polso della situazione climatica, faceva registrare 347 parti per milione (ppm); nel 1995, anno della prima Conferenza Onu sul cambiamento climatico, eravamo a 360 ppm; oggi il dato si attesta intorno alle 417 ppm, superando di gran lunga la soglia di sicurezza per evitare lo stravolgimento del sistema climatico posta dalla comunità scientifica a 350 ppm. I “record su record” fatti segnare dalle emissioni climalteranti nel corso degli anni ci hanno così consegnato un mondo che, per ora, si è scaldato di 1,2°C con effetti che sono innegabilmente sotto ai nostri occhi.
Nonostante il preoccupante ritardo accumulato e la necessità di dover velocizzare la trasformazione del sistema energetico, evidenziata finalmente anche dall’Iea, la 28esima Conferenza tra le parti (Cop 28) sul cambiamento climatico, ormai alle porte, sembra destinata a essere di nuovo una Cop più di passaggi che di cambiamenti. A farlo pensare ci sono diversi fattori, andiamo con ordine.
La principale speranza sulla Cop 28 che si terrà dal 30 novembre al 12 dicembre negli Emirati Arabi, a Dubai, è forse quella legata alla messa al bando delle fonti fossili: bisogna mettere nero su bianco una data limite entro il quale il mondo dovrà fare a meno di carbone, gas e petrolio. Attualmente in ambito negoziale siamo fermi a una vaga menzione sulla graduale uscita dal carbone e sulla graduale eliminazione dei sussidi alle fonti fossili, niente che faccia pensare a uno stop e che sia più vincolante per gli Stati e le imprese – qui per vedere cosa è successo alla Cop 27 di Sharm el-Sheikh e qui nella tappa intermedia di Bonn -. Una situazione di stallo su cui va fatta una semplice ma non banale considerazione: il summit di quest’anno si tiene negli Emirati Arabi e la presidenza di turno, che può orientare dibattitti ed esiti del summit, è affidata a Sultan al-Jaber che, tra i suoi ruoli, annovera quello di amministratore delegato dell'azienda petrolifera di Stato “Adnoc” (Abu Dhabi national oil company). Una posizione per molti in conflitto di interessi e che rischia di infrangere la speranza dello stop ai fossili ancor prima dell’inizio del summit. A farlo pensare ci sono alcune posizioni prese nel corso di questi mesi da al-Jaber, reo di “confondere” la diversificazione con la transizione, come scrive nel suo editoriale del 14 ottobre sul Domani Ferdinando Cotugno:
Nella sua intervista a Repubblica al-Jaber - questo il link - ha espresso due concetti chiave della narrazione emiratina su cosa deve essere questa Cop. Il primo è che non ci sarebbe nessun conflitto di interesse tra il suo ruolo di petroliere e l'altro di presidente della conferenza per mitigare i danni del petrolio. Al-Jaber rivendica infatti i successi di ‘Masdar’, altra grande azienda energetica di Stato, che effettivamente investe parecchio in rinnovabili. Gli Emirati guideranno Cop 28 portando avanti questa nuova tendenza dell'inattivismo climatico: confondere la diversificazione energetica con la transizione energetica. Ma gli investimenti in rinnovabili hanno senso da un punto di vista climatico se si sostituiscono ai combustibili fossili. Non se si aggiungono a essi. Eppure è proprio questo che rischiamo di vedere nella Cop 28 di Dubai, settimo produttore di petrolio al mondo e quinto per riserve di gas […]. Secondo un'analisi di Global witness, i piani industriali di Adnoc faranno aumentare le loro emissioni del 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2023, esattamente la direzione opposta a quella nella quale dovrebbe farci andare Cop 28, cioè il dimezzamento delle emissioni al 2030.
È dunque forte il rischio di assistere a una tornata negoziale all’insegna di un greenwashing 2.0: sì alle rinnovabili e contemporaneamente sì all’aumento dell’estrazione di petrolio e gas. Un’attività sempre più diffusa tra le aziende fossili che, tra l’altro, continuano a ricevere ingenti sussidi pubblici (diretti e indiretti) che ostacolano la transizione energetica ed ecologica e che rendono la previsione Iea sul picco delle emissioni quantomeno ottimistica: secondo il Fondo monetario internazionale nel 2022 almeno 7mila miliardi di dollari sono andati nella direzione opposta all’Accordo di Parigi. Una cifra record, che contribuisce ad alimentare l’intensità e il numero degli eventi estremi, capaci di generare enormi danni in giro per il mondo.
Proprio “perdite e danni” sarà un argomento centrale di questa Cop 28. Si riparte dal vero (e unico) successo della Cop 27 egiziana, quando è stato istituito un fondo “loss and damage” per far fronte ai disastri climatici. Un avvenimento che per la prima volta, in fase negoziale, ha portato i Paesi ricchi ad ammettere che sono responsabili dei danni originati dagli eventi estremi nei Paesi più vulnerabili e meno industrializzati. La discussione, dai risvolti anche tecnici, cercherà di stabilire cosa si intende per loss and damage e in quale fondo, nuovo o vecchio, dovranno confluire i finanziamenti per la riparazione.
In realtà il fondo loss and damage è “solo” una parte di una narrazione ben più ampia, che racconta dei dissapori passati, presenti e futuri, tra Paesi ricchi e i Paesi poveri. Un contrasto alimentato sia da una serie di impegni violati, basti pensare che non si è ancora raggiunta la quota di 100 miliardi di dollari all’anno del Green climate fund promessa entro il 2020 dalla Cop del 2009 di Copenaghen, sia dalle questioni “extra-Cop” come i conflitti in Ucraina e Palestina che stanno chiaramente esacerbando il processo multilaterale in ogni suo aspetto.
Altro punto nevralgico della Cop 28 è rappresentato dal “Global stocktake”, una sorta di grande inventario sul conteggio dei gas serra prodotti dagli Stati, strumento che prevede ogni cinque anni una nuova attività reportistica sullo stato delle emissioni e che, al suo interno, racchiude l’ambizione di incentivare la lotta alla crisi climatica valutando i progressi collettivi compiuti sull’Accordo di Parigi. Si tratta di un altro tema delicato, un ulteriore terreno di scontro tra Nord e Sud del mondo per via delle “responsabilità storiche”: i Paesi poveri chiedono di introdurre nel conteggio anche le emissioni di gas serra riconducibili al processo di industrializzazione che ha investito quelli ricchi, quest’ultimi non sembrano particolarmente propensi a tale soluzione.
La prima attività reportistica del Global stocktake si avrà proprio a Dubai e, per l’occasione, l’Unfccc (l’ente Onu responsabile delle Cop sul clima) ha pubblicato il quattro ottobre il documento “Views on the elements for the consideration of outputs component of the first global stocktake”. Tra le pagine del Rapporto si legge che gli impegni di riduzione delle emissioni presi di propria iniziativa dagli Stati fino a ora, conosciuti con l’acronimo “Ndcs” (Nationally determined contributions), se rispettati ci consegneranno un mondo più caldo di 1,7°C, ma secondo le reali politiche messe in campo fino a ora l’aumento di temperatura sarà ben più alto, di quasi 3°C, e probabilmente prima della fine del secolo. Per centrare l’obiettivo 1,5°C viene ricordato di tagliare del 43% i gas serra entro il 2030, del 60% entro il 2035, e dell’84% entro il 2050 rispetto al 2019, confermando le raccomandazioni contenute nell’ultimo rapporto dell’Ipcc (l’ente scientifico che si occupa di mettere insieme i migliaia di studi sulla crisi.
Andrà poi avanti la discussione su come riformare il sistema finanziario e delle banche multilaterali, inadeguate ad affrontare il riscaldamento globale, e si cercherà una quadra sull’attività di adattamento che aspetta ancora un seguito dopo la decisione della Cop 26 di Glasgow di raddoppiare i fondi dedicati.
Ma le Cop sul clima sono anche un’occasione preziosa, e da sfruttare, per la società civile e per quei Paesi, spesso dimenticati dalla narrazione, tra cui alcune isole che rischiano di sparire a causa dell’innalzamento del livello dei mari. Dello scorso anno ricordiamo, per esempio, come Tuvalu, una piccola nazione insulare del Pacifico, sia stata la prima nazione in sede negoziale a chiedere la costituzione di un trattato internazionale di non proliferazione dei combustibili fossili.
Intanto conosciamo già le mosse dell’Europa. Il Consiglio Ue del 16 ottobre ha infatti definito la posizione dell’Unione europea in sede negoziale. Gli Stati membri sottolineano l’importanza di innalzare il livello di ambizione affinché resti possibile l’obiettivo 1,5°C e riconoscono che le principali economie devono aumentare gli sforzi su adattamento e mitigazione, anche rivedendo e aggiornando i Ndcs. Purtroppo, nel documento di sintesi, non figura una proposta per lo stop ai combustibili fossili ma si parla, anche qui, solo di graduale eliminazione.
E veniamo al ruolo dell’Italia. Durante la visita in Europa, al-Jaber ha incontrato la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Nella nota diffusa da Palazzo Chigi si legge che “Meloni ha espresso il suo apprezzamento per il lavoro portato avanti dagli Emirati arabi uniti sotto la guida di Dr. Al Jaber e per i suoi sforzi per un processo che ha come obiettivo quello di concordare una chiara tabella di marcia per accelerare i progressi attraverso una pragmatica transizione energetica globale, un approccio ‘che non lasci indietro nessuno’ e un'azione inclusiva per il clima”. Il 18 settembre il Governo ha finalmente approvato la Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile (pubblicata l’8 novembre) e, negli stessi giorni, durante il summit sugli SDGs di New York si è impegnato ad accelerare il conseguimento dell’Agenda 2030. Sul fronte climatico il modo per farlo è disinvestire dai combustibili fossili.
L’Italia, inoltre, come sottolineato dal Rapporto ASviS 2023, per velocizzare il processo di decarbonizzazione dovrebbe utilizzare le bozze del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) e del Piano nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc) per guidare un ampio insieme di politiche economiche, sociali e ambientali che vanno sostenute con risorse finanziarie adeguate alla sfida (qui i policy brief ASviS dedicati ai due Piani). In particolare il Pniec, strumento fondamentale per definire la politica energetica e ambientale del nostro Paese verso la decarbonizzazione, dovrebbe essere sfruttato per individuare gli ostacoli allo sviluppo delle rinnovabili, valorizzando sia la dimensione strategica delle comunità energetiche sia la pratica dell’autoconsumo da fonti rinnovabili.
In generale, sul tema, si avverte la mancanza di una Legge sul clima, già adottata da diversi Paesi europei, che faccia da cornice a queste due strategie. Per raggiungere la neutralità climatica al 2050 la legge deve: creare una governance efficace (in cui siano ben definiti i ruoli del Governo, del Parlamento e degli enti territoriali); definire un percorso che porti all’eliminazione dei sussidi pubblici che danneggiano l’ambiente e la salute umana; istituire nuove modalità di partecipazione con cui poter coinvolgere gli operatori economici e la società civile per la definizione delle politiche climatiche.
di Ivan Manzo
Fonte copertina: @COP28_UAE