Editoriali
Crescono ansia, depressione e solitudine, con costi ingenti per l’Italia. Non abituarsi allo stress è un passo fondamentale per stare bene. Investire in salute mentale significa prevenzione e risorse adeguate per costruire una società più sana.
È sera, spegniamo la luce. Chiudiamo gli occhi e i pensieri prendono il sopravvento. La stanchezza si fa sentire, ma la mente non è pronta a fermarsi dopo una giornata frenetica. Sale l’ansia per le cose da fare il giorno dopo o riaffiorano tutte le preoccupazioni personali. Non riusciamo a prendere sonno: c’è qualcosa che non ci fa stare sereni. È una condizione ricorrente a cui ci siamo abituati. Ma va davvero bene abituarsi?
Le nostre vite sono sempre più piene di stimoli, positivi e negativi. Un lavoro può essere appagante, ma anche travolgerci, impedendoci di staccare davvero. C’è chi teme di perderlo o non lo ha, vivendo con la paura di non arrivare a fine mese. Altri hanno la fortuna di essere circondati da affetti, ma magari devono correre da una parte all’altra per la cura di un familiare anziano o dei figli. Alcuni sono succubi del cellulare, consapevoli o meno, e non riescono a smettere. C’è chi ha voglia di sperimentare l’incredibile potenzialità dell’intelligenza artificiale, e chi teme gli rubi il lavoro o sfugga al controllo. Ci sono poi persone che non dormono la notte a causa della cosiddetta “ecoansia”, o del contesto geopolitico o delle guerre lontane non più così lontane, preoccupandosi del futuro proprio e dei figli.
Forse, approfittando della Giornata mondiale della salute mentale del 10 ottobre, dovremmo fermarci un momento per interrogarci davvero su come stiamo. Noi e chi ci circonda. Perché attorno a noi ci sono persone che sorridono, ma celano altro, o che condividono sui social una vita dall’apparenza perfetta, o che alla domanda “come stai?” rispondono sempre “bene”. Ma la domanda che sorge spontanea è: se andiamo tutti così bene, perché la solitudine, l'ansia e la depressione continuano a crescere?
Secondo il Rapporto di The European House – Ambrosetti (Teha) e Angelini Pharma, pubblicato a febbraio 2025, i disturbi mentali colpiscono una persona su sei. Ansia e depressione sono i più diffusi, con rispettivamente 6.950 e 5.365 casi ogni 100mila abitanti. La prevalenza più alta si registra tra i 20 e i 54 anni, con 19mila casi per 100mila. In Italia i tassi di prevalenza dell'ansia sono aumentati di +1.148 casi e della depressione di +680 casi per 100mila abitanti.
Tra i fattori che pesano sulla nostra salute ci sono l’iper-lavoro e la precarietà, l’iper-connessione, il peso dei social, i carichi di cura, le disuguaglianze, le discriminazioni, il contesto politico e ambientale, i carichi emotivi e relazionali (come le separazioni), la salute fisica e il senso di incertezza. La salute mentale è strettamente collegata a quella fisica: una ricerca Oms-Ilo ha rivelato, ad esempio, che lavorare più di 55 ore a settimana aumenta il rischio di ictus e malattie cardiache. Eppure, molti si ritrovano ad accumulare straordinari senza mai staccare mentalmente. Secondo l’Onu, l’ossessione per la crescita ha generato un’economia del burnout, una condizione di esaurimento emotivo che colpisce milioni di lavoratori in tutto il mondo.
Il carico di cura, invece, è un problema che interessa soprattutto le donne: secondo l’Istat dedicano in media il 74% del loro tempo libero a lavori domestici o attività di cura - oltre 5 ore di lavoro al giorno a titolo gratuito, contro meno di 2 ore degli uomini. Quanto alle preoccupazioni ambientali, secondo un’indagine Unicef-Youtrend, un italiano su cinque soffre di eco-ansia, legata alla percezione delle minacce ambientali. Sarebbe interessante capire anche quante persone sperimentano, potremmo dire, una “geo-ansia”, causata dal contesto geopolitico: guerre trasmesse in diretta e incertezza globale producono una costante sensazione di instabilità, preoccupazione e pericolo.
Online dal risveglio alla buonanotte, l’iperconnessione ci obbliga a essere sempre “presenti”. Un like mancato, un messaggio non risposto, un gruppo WhatsApp silenziato: tutto può trasformarsi in ansia. Secondo l’EY Decoding the Digital Home Study, riportati su Repubblica, il 42% delle famiglie italiane è preoccupato per il tempo trascorso online sui vari device e cerca attivamente una disintossicazione digitale, mentre il 44% teme l’impatto negativo che l’essere online ha sul benessere generale. Inoltre, il 36% trascorre più tempo sui social che a interagire con amici e comunità, in luoghi dove modelli irraggiungibili di successo e corpi perfetti possono spingere a confronti continui che corrodono l’autostima.
A supporto del Paese è appena arrivato il nuovo Piano nazionale per la salute mentale 2025-2030, in attesa dell’intesa in Conferenza Unificata, con novità come lo psicologo di base e maggiore attenzione a dipendenze e disagio giovanile. Restano però da definire risorse e tempi di attuazione. Il tema delle risorse è cruciale: secondo Teha, i disturbi mentali costano all’Italia 20 miliardi di euro l’anno, circa il 3,3% del Pil, con perdite complessive superiori a 63 miliardi di euro, legate a perdita di produttività, assenteismo e disoccupazione di lunga durata. Oggi si investe il 3,4% della spesa sanitaria nazionale in salute mentale; se il Paese aumentasse le risorse fino a raggiungere il target del 5%, si registrerebbero benefici diretti e indiretti per 10,4 miliardi di euro. Per ogni euro investito in salute mentale, il Sistema-Paese ne guadagnerebbe 4,7.
Oltre all’aspetto economico, c’è un tema culturale. Il discorso è molto ampio, ma in questa sede vorrei proporre sette punti di riflessione per tutelare la nostra salute mentale. Primo, non normalizzare lo stress e l’ansia. Lo dicevo all’inizio: ci siamo abituati. Ma abituarsi non va bene. La narrazione della stanchezza cronica come sinonimo di impegno e responsabilità non può funzionare. A lungo andare questo modello produce un Paese logorato: giovani che si sentono già “vecchi dentro”, adulti che non riescono più a ricaricare energie, anziani lasciati soli nella gestione del proprio malessere psicologico.
Secondo punto, non lasciare che la salute mentale sia un tabù. Dire “sto male” deve avere la stessa dignità di dire “ho la febbre”. La terapia psicologica non va vista con diffidenza. Se mi rompo un braccio vado dal medico, perché non dovrebbe accadere lo stesso per la salute mentale? Abbiamo il diritto di ammettere la nostra fragilità come parte della nostra umanità, di chiedere aiuto senza sentirci giudicati. Il diritto a smettere di nascondere come stiamo davvero. Perché il dolore mentale si annida nel silenzio, nella difficoltà ad alzarsi dal letto, nella paura di un futuro incerto, nel sonno a singhiozzi. Ed è proprio il silenzio che lo rende così potente. La lotta per la salute mentale non si vince con la sola forza di volontà, ma con l'empatia di chi si ha intorno. E il primo passo è chiedere aiuto, senza paura di sentirsi giudicati.
Tre, non trattare la terapia come un lusso. Le figure di supporto alla salute mentale, come psicologi e psichiatri, costano. C’è chi rinuncia a curarsi per liste d’attesa lunghe o perché un “male non visibile” non sembra giustificare la spesa. C’è chi pensa siano soldi buttati. Ma investire in salute mentale vuol dire investire anche in salute fisica (essendo strettamente collegate) e quindi sul nostro benessere complessivo.
Quattro, non glorificare il burnout. Lo stress è vissuto da alcuni come un badge di onore: “se non sei esausto, non stai lavorando abbastanza”. È questa la narrazione che spinge a considerare la stanchezza come una misura del successo. È vero invece il contrario: persone meno stressate sono più produttive e sane. Per questo motivo è nato il “diritto alla disconnessione”, riconosciuto dall’Unione europea, che tutela il lavoratore e la lavoratrice dal dover essere sempre reperibile anche fuori orario. Tuttavia, in molti ambienti di lavoro questa norma resta lettera morta: si continua a premiare chi risponde alle mail di notte, chi rinuncia alle ferie, chi sacrifica la vita personale sull’altare della performance. Serve un cambio di paradigma: imparare a considerare il riposo non come un fallimento, ma come una componente necessaria della salute e della qualità del lavoro. L’Intelligenza artificiale nel contesto lavorativo è un’arma a doppio taglio: da un lato ci può dare una mano riducendo compiti ripetitivi, dall’altro bisogna fare attenzione che il superfluo non sia costituito da noi stessi, cedendo il potere decisionale all’AI e facendoci perdere l’abitudine a prendere decisioni.
Cinque, non confondere la connessione con la vicinanza. Essere sempre online non equivale a sentirsi meno soli. I social ci illudono di essere in contatto con tutti, ma spesso ci allontanano da noi stessi e dagli altri. Non è un caso se, in un mondo iperconnesso, la solitudine è diventata una delle principali emergenze sociali. I legami autentici richiedono tempo, presenza reale, ascolto reciproco. Serve riscoprire la lentezza e la profondità delle relazioni: un caffè con un amico, una giornata in ufficio, una passeggiata senza auricolari, una conversazione senza notifiche.
Sei, non banalizzare un problema di salute mentale. Dire a una persona depressa di “reagire” o a chi soffre di anoressia di “mangiare di più” significa non capire la profondità del problema. Le malattie mentali non sono questioni di carattere o di volontà, ma condizioni complesse, spesso legate a fattori biologici, ambientali e sociali. Banalizzarle non solo ferisce, ma isola ancora di più chi ne soffre.
Serve un linguaggio diverso: più rispettoso, informato e comprensivo.
Infine, sette, non dimenticare le giovani generazioni. Togliersi la vita è la seconda causa di morte tra i 10 e i 25 anni, secondo i dati del 2023 di Telefono Amico Italia. A finire sotto accusa sono soprattutto gli smartphone, per la loro capacità di creare una dipendenza comportamentale precoce, alimentata dal confronto con modelli irrealistici sui social e dall'esposizione a contenuti dannosi. Questo ha portato molti giovani a isolarsi, sperimentando sentimenti di inadeguatezza e ansia. Più in generale, i ragazzi e le ragazze sono cresciuti in un mondo incerto, tra pandemia, crisi economiche, emergenze climatiche, guerre e precarietà diffusa. L’adolescenza e la prima età adulta sono fasi cruciali per la salute mentale: è lì che si formano i primi segnali di disagio, ma anche le prime risorse per affrontarlo. Servono politiche di prevenzione, sportelli psicologici nelle scuole e nelle università, luoghi di incontro. Non possiamo permetterci di perdere un’intera generazione schiacciata dal peso dell’ansia, della solitudine o del “non sentirsi mai abbastanza”.
Prendersi cura della salute mentale non significa solo affrontare un problema sanitario, ma ripensare il modo in cui viviamo, lavoriamo, ci relazioniamo. È un tema che riguarda tutte e tutti, non solo chi si trova in difficoltà. Perché ogni volta che impariamo a riconoscere i nostri limiti, a chiedere aiuto, a non giudicare la fragilità altrui, contribuiamo a costruire una società più sana, più gentile, più umana.
La salute mentale non può essere confinata tra le mura di uno studio medico o affidata alla buona volontà dei singoli. Richiede risorse, ma anche una trasformazione culturale: serve un nuovo lessico della cura, che restituisca valore alla pausa e all’ascolto. E forse, proprio partendo da una domanda semplice – “come stai, davvero?” – possiamo cominciare a cambiare le cose. Per noi, per chi ci sta accanto, per un Paese che non abbia paura di guardarsi dentro.
