Editoriali
L’8 marzo ci ha offerto dati e riflessioni su antiche e nuove criticità, dai gap salariali alle barriere in ingresso. Occorre aumentare gli sforzi per un nuovo modello di welfare, ma anche per un cambio culturale.
C’è un film italiano che sta sbancando in Cina, tra code ai botteghini e servizi nei Tg. In soli due giorni C’è ancora domani di Paola Cortellesi ha registrato 450 mila biglietti d’ingresso e oltre 28mila proiezioni. Da Pechino a Shangai, cineasti e gente comune si sono fatti coinvolgere dalla storia di Delia, coraggiosa mamma tuttofare nella Roma del dopoguerra: picchiata e succube del marito e del suocero, si arrangia facendo diversi lavori, pur vedendo i guadagni destinati all’uomo di casa. Nella solitudine che la circonda, però, brilla ancora una scintilla, un desiderio di ribellione che esprimerà esercitando il diritto di voto. Un’opera riuscita e attuale, in un’Italia segnata dai troppi femminicidi (a proposito: con il via libera di pochi giorni fa del Consiglio dei ministri, il femminicidio si avvia a diventare reato punito con l’ergastolo).
Da allora le cose sono migliorate, ma la questione femminile in Italia resta una sfida complessa. Anche nel mondo del lavoro, dove il talento femminile spesso viene soffocato, poco più di una donna su due ha un impiego e la metà di queste è part-time. Nel Paese della “transizione infinita”, come la definisce l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) e vi abbiamo raccontato sul sito ASviS, la parità è ancora un obiettivo lontano: il mercato del lavoro cambia, ma le disuguaglianze di genere restano un filo resistente che lega il presente al passato, che si allenta ma non si spezza.
Lo conferma anche l’indagine realizzata dal Cnel in collaborazione con l’Istat, resa nota alla vigilia della Giornata internazionale della donna dell’8 marzo. Sebbene si registri una leggera crescita, il tasso di occupazione femminile in Italia è inferiore di 12,6 punti rispetto alla media europea ed è il valore più basso tra i 27 Paesi Ue. Dal 2008 al 2024 l’incremento è stato di 6 punti, contro gli 8,6 della media Ue, e il gap di genere risulta quasi doppio (17,4 contro 9,1). Le disparità sono evidenti anche a livello territoriale: mentre le regioni del Nord e del Centro, ad eccezione del Lazio, hanno raggiunto il target del 60%, come previsto dalla Strategia di Lisbona 2010, nessuna regione meridionale ci è riuscita.
Come ha affermato Linda Laura Sabbadini, già direttrice dell’Istat, presentando la ricerca,
nel nostro Paese ci sono ancora delle vere e proprie trappole che impediscono la crescita dell’occupazione femminile, per allinearci con i livelli della media europea. Una prima trappola è la forte incidenza della disoccupazione di lunga durata. C’è poi il nodo dell’inattività. Terza trappola la scarsa conciliazione tra vita privata e lavoro. Un altro aspetto delicato è quello della vulnerabilità. Circa 2 milioni e mezzo di donne presentano vulnerabilità sul lavoro: contratti a tempo determinato, part-time involontario e altre situazioni di lavoro non standard. La maggiore vulnerabilità riguarda le lavoratrici madri, le donne straniere, le donne che offrono servizi alle famiglie.
E allora: perché queste donne non lavorano o restano ai margini? Per una mancanza di volontà o forse perché non sono libere di lavorare? Se da un lato un reddito – legato agli studi e al contesto in cui si vive – può rappresentare una potenzialità, al Sud la situazione si complica, con guadagni medi compresi tra 1.000 e 1.500 euro al mese. Quando arriva il momento di avere un figlio (in media, per le donne, intorno ai 31 anni, dopo vari rinvii per consolidare la propria posizione lavorativa), si attiva il congedo parentale, prima obbligatorio e poi facoltativo. Generalmente, nella coppia, chi guadagna di meno è la donna: si preferisce quindi prendere l’indennità sullo stipendio più basso. Al rientro, il costo mensile del nido erode ulteriormente il reddito, soprattutto se il bambino si ammala e non c’è nessuno a prendersene cura, se non una babysitter con un costo ulteriore. E la disponibilità di posti nei nidi è una nota dolente in Italia, con una copertura del 28% dei bambini rispetto a una media Ue del 37,9%.
Le difficoltà non mancano nemmeno per le donne senza figli. Oltre al rischio di un motherhood penalty preventivo, quando si tratta di assunzioni e contratti, alimentato dalla retorica del ‘vedrai che cambi idea’ o ‘poi te ne penti’ (ne parla in questa newsletter la giornalista Ilaria Maria Dondi), c’è il problema dei carichi di gestione familiare che sono comunque elevati. Secondo dati Istat, le donne dedicano in media il 74% del loro tempo libero a lavori domestici o attività di cura: oltre 5 ore di lavoro al giorno a titolo gratuito, contro le neanche 2 ore degli uomini.
Ma anche quando un lavoro ce l’hanno, in Italia le donne guadagnano meno degli uomini. Come rileva l’Istat, nel nostro Paese, nel 2022, il Gpg, ovvero il differenziale di genere nelle retribuzioni orarie medie, si attesta al 5,6%: la retribuzione oraria media maschile è pari a 16,8 euro e quella femminile a 15,9 euro. Il gap tende ad ampliarsi tra i laureati (16,6%), tra i quali la retribuzione media oraria è di 20,3 euro per le donne e di 24,3 euro per gli uomini, ma anche tra i dipendenti con al più l’istruzione secondaria inferiore (15,2%). È l’Italia in cui il pregiudizio si forma prestissimo, già sui banchi di scuola – bambine e ragazze sono significativamente sottorappresentate nelle materie Stem e siamo l’unico Paese con un divario di genere in alfabetizzazione finanziaria già tra i teenager, ci ha ricordato un rapporto Ocse Pisa di qualche anno fa – e prosegue durante la carriera: le donne sono più istruite degli uomini ma svantaggiate sul lavoro, e circa la metà dell'occupazione femminile è concentrata in sole 21 professioni, mentre per gli uomini questo valore raggiunge ben 53. Il dato è del rapporto Cnel-Istat, secondo cui tra le professioni più frequenti nella componente femminile troviamo le maestre di scuola primaria, le addette agli affari generali e segretarie, le infermiere e le operatrici sociosanitarie, le commesse, le badanti, le colf e le addette ai servizi di pulizia. Tra le professioni specialistico/intellettuali, troviamo esclusivamente quelle legate all’ambito della formazione.
Anche la segregazione verticale (il “soffitto di cristallo”) continua a essere una realtà. In Italia, le parlamentari donna, sottolinea lo studio Cnel-Istat, sono il 33,6%. La quota di donne elette nei consigli regionali si ferma al 24,5%. Per quel che riguarda le imprese, solo il 28,8% è a conduzione femminile. E non basta la buona notizia della crescita della quota di imprenditrici in tutte le classi di età, ma soprattutto tra le under 35 (+2,3 punti): di fronte a quello che appare come un ritardo strutturale del Paese, e in alcuni casi un’anomalia cronaca nel panorama europeo, occorre fare di più.
Elena Bonetti, già ministra per le Pari opportunità e la Famiglia, ha ricordato in un convegno come due macro temi nel nostro Paese siano rimasti troppo spesso divisi: da un lato l'elemento familiare – il ruolo della donna all’interno della famiglia e la cura familiare – e dall’altro l’articolo della Costituzione che garantisce il diritto al lavoro e a una retribuzione salariale paritaria, che rappresenta esattamente il fulcro del lavoro. Due donne, Nilde Iotti e Tina Anselmi – rispettivamente di estrazione comunista e cattolica – hanno con grande sapienza affermato che questi elementi erano in realtà strettamente correlati e andavano valorizzati insieme.
Iotti, giovane deputata nella Costituente, operò nella sottocommissione sul tema della famiglia, abbattendo i preconcetti nella valorizzazione di quell'istituto, nell'ottica di tutelare pienamente il ruolo civile delle donne in una democrazia che, senza il loro contributo, non poteva essere costruita. Dall'altra parte Anselmi, introducendo specifiche tutele per la maternità nel mondo del lavoro, sottolineò come senza tali misure non si coglieva il fondamento della nostra democrazia: la possibilità per tutte e tutti di realizzare un progetto personale di vita, come parte integrante di quello dell’intera società.
Una visione lungimirante, che rimane vivida e attuale nel contesto moderno. La parità di genere non solo favorisce l’equità, ma fa bene anche alla crescita e allo sviluppo del Paese. Come ha osservato la sociologa Chiara Saraceno sulle colonne de La Stampa,
aumentare il tasso di occupazione femminile dovrebbe costituire un obiettivo importante, non solo per motivi di equità e di sostegno all’autonomia economica delle donne, ma per motivi di sostenibilità in un Paese in cui i dati demografici indicano che vi sarà una scarsità di lavoro a lungo termine. Ma per farlo occorre innanzitutto ridurre, se non eliminare, i costi che le donne pagano per il lavoro di cura che svolgono, o che ci si attende che svolgano, per la famiglia, in primo luogo per la maternità, spesso ancor prima di diventare madri e anche se non lo diventano mai”.
Per fortuna non si deve ripartire da zero. Le normative degli anni ‘70, come la Legge 903/1977, hanno cominciato a colmare il divario retributivo, riconoscendo il diritto a una pari remunerazione. Successivi interventi legislativi hanno rafforzato i diritti legati alla maternità e alla conciliazione lavoro-famiglia. La Legge Golfo-Mosca ha incentivato la presenza femminili nei vertici aziendali. E le direttive europee hanno integrato e rafforzato il quadro normativo italiano, spingendo verso standard più elevati. Ma non è abbastanza. Ha ricordato giustamente Monica D’Ascenzo sul Sole 24 Ore che
la strada percorsa ha portato le donne a guadagnare posizioni di rilievo dalla politica alle istituzioni, dalle aziende alla cultura, dallo sport alle università. Tanti soffitti di cristallo sono stati abbattuti e altri scricchiolano. Ora, però, è il momento che si passi dal sottolineare il ritardo e dal rivendicare la parità, all’agire concreto di ogni donna nel ruolo che in questi anni è stato conquistato.
Di che cosa abbiamo bisogno allora? Di una società che offra servizi strutturali, partendo da quelli educativi per la prima infanzia, a quelli economici, per permettere alle persone di acquisire tempo per sé. Ne avevamo parlato anche in questo editoriale qualche mese fa. È possibile pensare a un futuro in cui la riduzione dell'orario di lavoro consentirà di avere più tempo a disposizione per la sfera personale. Ma bisogna tenere in considerazione i carichi di cura e promuovere una cultura della condivisione per far sì che anche le donne possano trarne reale beneficio. La distribuzione equa del congedo parentale tra uomini e donne, come accade in altre parti del mondo, rappresenta un altro passo importante.
Guardando al 2030, a questo ritmo l’Italia non riuscirà a colmare i divari occupazionali tra uomini e donne. Occorrono interventi sistemici e non frammentati, come ha sottolineato il Gruppo di lavoro ASviS sul Goal 5 “Parità di genere” nell’analisi del Rapporto 2024 dell’Alleanza, chiedendo l’adozione di un piano integrato per l’occupazione femminile e giovanile entro la fine del decennio, nonché il riconoscimento del valore economico del lavoro di cura e la sua condivisione tra uomini e donne. La strada da percorrere passa da qui.
di Andrea De Tommasi